Investire in cultura
Una sfida anti crisi

Durante i terribili giorni in cui gli aerei di Hitler bombardavano Londra – tra l’estate e l’autunno del 1940, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale – qualcuno chiese a Churchill di tagliare i finanziamenti alla cultura per sostenere lo sforzo bellico – lo «romanza» anche il film da Oscar – il primo ministro inglese rispose: «Ma allora per cosa combattiamo?». Oggi noi non siamo in guerra, ma la crisi economica continua a mordere, ad avvelenare l’aria e ci concede solo speranze in libertà vigilata. La ripresa fatica ad avanzare, il lavoro è precario, e quando c’è, c’è solo per i più fortunati. Ci vuole un pizzico di coraggio, in un contesto così incerto, ad investire in cultura. Ma «L’Eco» questo coraggio ce l’ha e da domani «rivoluzionerà» l’inserto culturale domenicale.

Le quattro pagine diventano otto, con una veste grafica tutta nuova, tutte da leggere, tutte da conservare. Ogni settimana un argomento, solo uno, ma indagato a fondo, attraverso interviste, analisi, commenti. Il primo numero è una sorpresa che non sveliamo. Firme importanti, amici del giornale, si sono detti onorati di partecipare a questa avventura: il poeta Erri De Luca, il teologo Bruno Forte, il più autorevole antropologo contemporaneo, Marc Augé, e lo scrittore francese Emmanuel Carrère, autore di un libro provocatorio su fede e dintorni.

Investiamo sulla cultura perché non dimentichiamo che, a lungo, la nostra provincia ha mantenuto un record tristemente negativo, quello dei ragazzi che abbandonavano la frequenza scolastica prima di conseguire un diploma. Era il 25 per cento del totale. Un bergamasco su quattro, negli anni decisivi per la propria formazione, preferiva il lavoro alla scuola e, quando ci andava, le negava il potere di luogo di crescita. Adesso le cose vanno un po’ meglio, ma la percentuale non riesce a scendere al di sotto del 15 per cento.

Si fa un gran parlare della cultura che non dà da mangiare. Noi andiamo controcorrente. Siamo convinti che la cultura sia redditizia (come ha peraltro dimostrato la recente indagine del Comune di Bergamo sui «ritorni» delle stagioni teatrali e musicali della città). Non solo e non tanto per l’indotto che produce, ma perché genera senso di appartenenza a una comunità che ha sete di conoscenza e rispetto per le differenze, quell’inclinazione dell’anima che Dante attribuiva a Ulisse e che incide in profondità sulla qualità della vita, anche in quella di tutti i giorni. Il suo fine è aumentare il sapere e fondare un’identità. La cultura è il patrimonio di chi non ha patrimonio.

Ma dietro l’affanno della cultura c’è anche il tramonto di un’idea che ha dominato la nostra vita per generazioni, e invece ora appare incerta, sbiadita, appannata: l’idea di festa. Nella dinamica post industriale di una modernità secolarizzata e ostaggio della tecnica e dell’economia, la festa è talvolta percepita come perdita di tempo e di denaro. In Francia si dice «rimettere la chiesa al centro del villaggio». L’espressione ha ormai perso ogni connotazione religiosa, e oggi vuol dire semplicemente «mettere in ordine», «rimettere le cose al posto giusto». Ecco, con questa iniziativa «L’Eco» vuole rimettere al centro del villaggio (globale) la domenica. Perché la domenica è il sacro nel tempo. Per secoli una tradizione popolare ha tramandato in tutta Europa che i bambini nati di domenica sapessero compiere opere straordinarie e parlassero con facilità le lingue straniere. Era il segno, ingenuo ma tangibile, della consapevolezza di una diversità che abbiamo perso per strada: complice, per esempio, la convinzione che tenere aperti i negozi sette giorni su sette sia solo una questione sindacale. Non è così, perché l’indifferenza dei giorni lascia ciascuno solo e indifeso davanti allo scorrere inesorabile del tempo. Il tempo ci appartiene solo se riusciamo ad arrestarlo e a farlo nostro per davvero.

La perdita dell’idea del sacro cospira a non farci comprendere il presente che viviamo. Una leggenda bretone racconta della misteriosa scomparsa di una città, sommersa dalle acque: il suono delle campane della sua cattedrale giungerebbe remoto dal fondo. Ecco, il sacro, nella nostra epoca (chiamiamola post moderna per fare in fretta, appunto...), sembra ridotto a un suono lontano e confuso. Il «nuovo» inserto si chiama «Domenica» e ha per sottotitolo: «Settimanale di tutte le cose visibili e invisibili». Spesso è proprio l’invisibile la chiave per capire il visibile. Buona «Domenica» a tutti.

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