Italia, si dimettono
solo le dimissioni

«Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate», diceva Churchill. Il quale usciva dalla bandierina del calcio d’angolo con un dribbling a base di ironia very british. Carlo Tavecchio è quell’attimo lontano dai livelli di Churchill. Non è nato a Blenheim Palace a due passi da Oxford, ma a Ponte Lambro, provincia di Como, tra Schieppo e il monte Puscio. Non ha fatto lo storico, il militare, il primo ministro: è ragioniere, ex bancario, ex dirigente del calcio dilettanti. Con tutto il rispetto. Poi, con un colpetto niente male, s’è fatto issare fino alla guida della Federcalcio, scortato nientedimeno che da Claudio Lotito, quello che tra l’altro s’è distinto per la «sceneggiata» alla sinagoga di Roma. Tavecchio non è da meno: ricorderete, dopo l’elezione non ha perso tempo e subito ha festeggiato con una serie di gaffes che avrebbero steso un rinoceronte.
Lui, no. Impassibile. «Mi difenderò nei temi che credo di dimostrare di non essere razzista», dettò letteralmente ai cronisti, increduli di fronte a cotanto estro narrativo.

Ora, constatato lo sfascio del nostro calcio che manca clamorosamente un Mondiale, Tavecchio non fa nemmeno la battuta in stile Churchill: si limita a restare inchiodato al cadreghino, come quei violinisti che suonavano imperterriti mentre il Titanic colava a picco. Qui il Titanic è già sul fondo, le scialuppe sono soldout ma lui resta lì, saldato al timone, come se ci fosse ancora un mare in cui navigare. Qualcuno gli deve aver evocato il fantasma di Schettino che scappò dalla nave. E allora lui, furbo come una volpe, scaltro come una faina, resta lì. I veri capitani sono gli ultimi a scendere, dunque lui non scende. Si assume tutte le responsabilità, fiero, coraggioso fino al 27 prossimo venturo. Né, va detto, i cosiddetti manager e presidenti di società che l’hanno issato al trono, osano dire una parolina d’incoraggiamento. Su, Carletto, vai a casa. Niente, fanno il gioco del silenzio, il loro presidentino non si tocca e lui sta al gioco, stentoreo: «Indisponibile alle dimissioni».

Un po’ come Ventura. Che dice che lui ha perso solo due partite da quando ha preso la guida della Nazionale. Fa niente se ha perso quelle decisive, aizzandosi contro le ire di sessanta milioni di commissari tecnici in aspettativa, da Aosta a Portopalo di Capo Passero. Ora, nemmeno Ventura ha avuto il sussulto di dare le dimissioni. «Ho un contratto che va onorato», andava dicendo in giro. Che, tradotto: mi devono dare tutti i soldi previsti. Settecentomila euro, spicciolo più spicciolo meno. E infatti, abbarbicato anche lui al cavillo da azzeccacontratti, piuttosto che dimettersi recuperando un tantino di benevolenza pubblica ha preferito farsi assestare un sonoro calcione. Perdente, esonerato che nemmeno Oronzo Canà, ma pagato fino all’ultimo penny. L’uomo sa stare al mondo.

C’erano una volta le dimissioni, insomma. Che le minacciavano tutti e non le dava mai nessuno, si diceva un tempo. Una sorta di teatrino. Adesso, è sceso il sipario persino su quello. Meglio non minacciarle, prima che a qualcuno venga in mente di accoglierle, e poi sono problemi. Ed è un problema anche promettere addii pesanti con largo anticipo, in caso di mancato successo – che so, per esempio – a un referendum qualsiasi.

I tempi non sono felici, per chi si misura ogni giorno con i risultati verificati dal pubblico, con Google che torna minuto dopo minuto a rinfacciarti parole, dichiarazioni, promesse. Non c’è più spazio per l’oblio dei giorni, e se un tempo poteva funzionare la tecnica di aspettare che passassero temporali, bufere, tempeste e nuttate varie, adesso ogni retromarcia somiglia a un’arrampicata sugli specchi.

Chissà cosa avrebbe fatto il ct svedese, Jan Andersson, se fosse uscito da S. Siro col suo civilissimo sacchetto dei rifiuti dello spogliatoio, ma senza qualificazione mondiale. Conoscendo il rigore nordico, capacissimo di prender su e tornare nella ridente Halmstad a riempirsi la panza di salmoni e aurore boreali. Ma loro sono nordici, rigidi, persino noiosi. Noi siamo italiani, simpatiche canaglie che tengono inesorabilmente famiglia. Non minacciamo più nessuno, non rifiutiamo nemmeno le nostre stesse dimissioni. Carletto si autoconferma, seduto sul trono più alto con i piedi penzoloni, nonostante la sfiducia conclamata, dichiarata, spudorata del suo grande capo, il presidente del Coni. Carlo resta, Gian Piero va, stipendiati da nababbi. Chiamali scemi. Solo D’Alema, anni fa, disse: se perdo, mi dimetto. Fatto una volta, non ha più smesso (di perdere).

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