La Brexit insegna
L’Europa conviene

Oggi (forse) sapremo di più sul destino della Brexit, ma di sicuro anche questo tentativo in extremis dimostra che rompere con l’Unione Europea costa caro, a cominciare dai 40 miliardi di rimborsi che il Regno Unito dovrà comunque versare. Stiamo parlando dell’uscita di un socio fondamentale, ma in questa storia, iniziata con un referendum-disinformazione, la figura migliore riesce a farla un’Europa solitamente pasticciona. Tre premier britannici hanno infilato un errore dopo l’altro, a cominciare dal desaparecido Cameron, per continuare con la contraddittoria May (che aveva votato remain), per finire con questo Johnson borioso e spaccamontagne, ma senza maggioranza parlamentare (vedremo se il Labour gliela regalerà…).

Secoli di superiorità democratica buttati via, coinvolgendo ora persino la Regina in una pessima commedia, con tanto di tentativo di impedire ai rappresentanti del popolo di riunirsi. Davvero la cosa migliore sarebbe un altro referendum, con un corpo elettorale reso più consapevole da questi tre anni farseschi. Sempre meglio che seguire Johnson nel suo tifo per il no deal, con guai immediati sul Pil (si parla di un -6%), di rischi forti per il debito sovrano (2.000 miliardi di bond a rischio), per la sterlina (già ora giù del 16%) e con gravi complicazioni per l’unità del Regno non solo in Irlanda ma anche in Scozia. Un’uscita disordinata provocherebbe infine disagi innanzitutto per chi ha votato exit: carenza e rincari per i generi alimentari e il carburante, blocchi delle frontiere. Con pignoleria britannica, il governo ha persino programmato da mesi un numero di bare doppio rispetto al normale, per far fronte all’aumento di decessi per mancanza di medicinali!

Nonostante tutto, insomma, viva l’Europa. Nonostante la sua debolezza interna, nonostante l’autolesionismo, nonostante il mortificante comportamento sulla guerra della Turchia ad un popolo curdo a cui dovremmo essere solo grati. Anche al netto della Brexit, sarebbe davvero ora di capire quanto l’unione sia importante, soprattutto per i soci più fragili, Italia compresa. La sbornia anti europea sembra in verità attenuata, le sciocchezze sui numerini di Bruxelles non si sentono più. Salvini è arrivato addirittura a definire «irreversibile» l’euro, anche se la conversione 5 Stelle non è dovuta a cultura politica, se mai alla cinica convenienza su cui si regge la nuova coalizione. Chissà se davvero il sovranismo, anacronistico nel mondo dei grandi numeri, passerà di moda. Alle elezioni di maggio è stato sonoramente battuto e vince ancora in Polonia e Ungheria con i soldi di Bruxelles, ma nelle città di Varsavia, Cracovia e persino a Budapest prevalgono forze europeiste.E poi ci sono gli esempi illuminanti della Grecia e del Portogallo, che hanno votato da poco, su cui non si riflette abbastanza, e che stanno oggi meglio di questa Italia ancora malmostosa.

La Grecia provò a fare il suo referendum (mai però contro l’Europa e tanto meno l’euro), ma poi il leader protopopulista Tzipras finì per rimangiarsi tutto e accettare le direttive di Bruxelles, ricuperando così la strada virtuosa, pagando anche i meriti con il passaggio al governo Mitsotakis, fieramente europeista e liberale. Il popolo ha sofferto per le truffe governative precedenti e la Grecia ha dovuto cedere beni pubblici a tedeschi e cinesi, ma oggi è tornata ad avere una speranza. Ancor più netto l’insegnamento che viene da Lisbona. Era allo stremo, quando subì l’umiliazione dell’arrivo della troika in cambio di 70 miliardi di aiuti europei. Ha confermato poche settimane fa un governo di sinistra che ha fatto riforme dure e solide manovre espansive migliori delle vaghezze giallorosse, il Pil cresce quasi del 2%, e il debito pubblico è rosicchiato da anni di avanzo primario del 3%. Lo spread che da noi si muove ancora attorno a quota 150, per il Portogallo è di 66 punti, in gara con quelli della Spagna, cioè attorno alla metà dei nostri. L’Europa conviene, insomma, proprio a chi è più in difficoltà. Come noi, che non cresciamo da 20 anni, e abbiamo azzerato l’1,7% a cui eravamo arrivati due anni fa.

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