La fronda nei 5 stelle
Di Maio a rischio

Serve una guida esperta per districarsi tra le tante correnti che agitano il Movimento Cinque Stelle. Ma non serve un occhio particolarmente allenato per capire che lo scettro di Luigi Di Maio è decisamente a rischio. Per mille ragioni: politiche, naturalmente, ma anche di potere. Conviene cominciare da queste ultime che sono sempre rivelatrici dei veri umori. La formazione del nuovo governo come sempre ha lasciato per strada tanti morti e feriti. A cominciare dagli ex ministri che si sono visti scippare la poltrona senza nemmeno un grazie. L’ex responsabile della Sanità Giulia Grillo dice di aver saputo di essere stata estromessa solo cinque minuti prima che fosse resa nota la lista di Conte. Non è l’unica ad essere furiosa: come lei Toninelli, l’ex ministro dei Trasporti. E che dire della signora Trenta, la ministra della Difesa che riteneva di aver guadagnato una medaglia sul campo della battaglia navale con Salvini e che invece è stata congedata bruscamente?

A tutti costoro si devono poi aggiungere quelli che speravano di diventare viceministri o sottosegretari: sono entrati solo gli amicissimi di Di Maio più qualche fedele del presidente Fico. Né gli aspiranti frustrati hanno potuto rivalersi con le presidenze delle Commissioni, come in genere si usa, perché i leghisti che le conquistarono all’inizio del passato governo non hanno alcuna intenzione di schiodare. E così ai parlamentari rimasti fuori dai giochi non resta che vagolare per il Transatlantico e rimuginare.

È proprio il clima ideale per le congiure e le fronde. Esattamente quelle che hanno cominciato a manifestarsi nelle assemblee dei gruppi del Senato e della Camera e che hanno preso la forma di documenti in cui si scrive chiaro e tondo che Di Maio non può pensare di fare come gli pare e di accumulare potere: «serve collegialità», dicono i malpancisti usando la frase in perfetto stile Prima Repubblica con cui si vuole legare le mani al capo. Il quale naturalmente ha anche altri problemi. Primo: i parlamentari che se ne vogliono andare dal movimento. Qualcuno lo ha già fatto prendendo la casacca dei renziani; qualcun altro sta per salpare verso la Lega. Il timore che le elezioni possano tenersi ben prima del 2023 e che il M5S possa prendere un bagno memorabile perdendo file di seggi induce diversi deputati e senatori a guardarsi intorno verso chi gli possa offrire qualche certezza in più di essere rieletto. Contro di loro Di Maio reagisce nel peggiore dei modi, minacciando la famosa multa di 100 mila euro che la Casaleggio prima della scorsa campagna elettorale impose ai candidati onorevoli in caso di fuga. Ma è ben difficile che quella minaccia, portata in una qualsiasi aula di tribunale, possa concretizzarsi. Anche perché l’altra mossa di Luigino, cambiare la Costituzione e istituire il «vincolo di mandato» che impedisca il passaggio a gruppi diversi da quelli in cui si è stati eletti, ben difficilmente vedrà mai la luce.

La diaspora parlamentare, se si ingrossasse (magari tracimando in periferia in polemica con gli accordi col Pd) potrebbe ingigantire il secondo problema di Di Maio: e cioè la concorrenza che gli sta facendo Giuseppe Conte per conquistare la leadership del movimento. Il presidente del Consiglio si è convinto ormai che il M5S, se vuole sopravvivere, ha una sola speranza: aggrapparsi alla sua credibilità istituzionale e internazionale. Conte non dimentica che Di Maio, nel pieno della crisi d’agosto, avrebbe preferito riallacciare con Salvini e prendere per se stesso la poltronissima di presidente del Consiglio, e farà di tutto per indebolirlo. Cosa alla quale stanno già alacremente lavorando il fratello-coltello di Di Maio Di Battista – ostilissimo al governo col Pd – e anche il presidente della Camera Fico che si vede come l’unico garante di un movimento spostato a sinistra. E come dimenticare Grillo che è tornato ad occuparsi della sua creatura imponendo la trattativa con Zingaretti?

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