La Lega a una voce
e le spine di Salvini

Il raduno di ieri a Pontida, all’indomani della decisione del tribunale di Genova di bloccare alcuni conti correnti del partito, sarà ricordato perché potrebbe essere l’ultimo per Bossi. Per la prima volta dal ’90, dall’esordio, il fondatore non ha potuto parlare. Uno schiaffo, almeno sul piano umano. Era dietro il palco e sta preparando le valigie: «È un segnale che devo andarmene via». Neppure, il vecchio leone provato e umiliato, è stato citato da Salvini, apparso peraltro un po’ affaticato, quando, al termine dell’intervento.

Dai 50 mila sul pratone nessuno ha «chiamato» Bossi: la memoria non abita più qui. Con ogni probabilità siamo all’anticamera dell’addio. La stessa scaletta del programma è stata accorciata. Dunque, a scanso di equivoci e con chiarezza definitiva, la Lega, che già si ritiene in area palazzo Chigi, parla con una sola voce: quella del «capitano», come lo chiamano i suoi.

L’istantanea di Pontida consegna un popolo leghista tutto schierato con il suo comandante, ma resta da vedere al dunque quanto pagherà in consensi la linea oltranzista di Salvini un po’ su tutti i temi caldi, comprese la questione vaccini e la teoria del complotto. E quanto costerà in termini di autoisolamento, carburato da un radicalismo identitario.

Qualche distinguo, comunque, c’è: sia sullo stop al senatùr sia sul tipo di reazione alla magistratura. Maroni, dispiaciuto, ha riferito ai giornalisti (e non dalla tribuna) che Bossi a Pontida ha sempre diritto di parola, sottolineando che la decisione è stata presa da Salvini. Sui giudici genovesi, poi, ha fornito una valutazione pacata dal profilo basso e possibilista: decisione «abnorme», ma «non la butto in politica», «un problema serio da risolvere».

La grana giudiziaria è stata parte integrante del comizio di Salvini, ma non l’ha esaurito. C’è stato spazio per citare tutto il discusso repertorio leghista «legge e ordine», a cominciare dall’emigrazione clandestina, e per pochissimi riferimenti a Berlusconi.

Il leader leghista, che si sente sotto attacco e che più volte s’è definito «il prossimo presidente del Consiglio», se l’è presa con quelle toghe che «fanno politica». Per cui, una volta al governo, la Lega rispolvererà la vecchia idea dei «giudici eletti dal popolo» e cancellerà le leggi Mancino e Fiano (legate al reato di apologia del fascismo), in quanto «le idee non si processano». Da qui al ritenersi vittima di un regime, qualcosa di simile al sistema mussoliniano e sovietico, il passo è stato breve quanto ardito e fuori luogo.

Qualche chiarimento andrebbe posto anche sulla non meglio precisata «mano libera» che la Lega, una volta al governo, lascerà alle forze dell’ordine: cosa vuol dire «mano libera», e verso chi? Salvini ha fatto solo un cenno all’autonomia in vista dei referendum del 22 ottobre in Lombardia e Veneto, lasciando la parola ai due governatori su un tema che, senza la pronuncia dei giudici, sarebbe stato centrale.

La retorica d’antan sembra ammessa nel clima emotivo di Pontida: Maroni e Zaia, facendosi prendere la mano, hanno parlato della possibilità di «riscrivere la storia» in quella che è la «madre di tutte le battaglie». In soldoni significa che la successiva trattativa con il governo (il cui esito è tutt’altro che scontato) riguarderà il tentativo di tenere «almeno la metà» del residuo fiscale, cioè la differenza fra quel che i contribuenti pagano in tasse e ciò che ricevono da Roma.

È parsa, tuttavia, evidente la vera preoccupazione dei due governatori, perché il test politico riguarderà l’affluenza alle urne su un quesito che finora non scalda i cuori più di tanto. Da qui l’appello alla mobilitazione. Se Bossi non ha parlato, quella di ieri è stata la prima volta di un esterno sul palco, non a caso Toti: il governatore della Liguria appartiene al fronte nordista della squadra di Berlusconi, il «diversamente forzista» come l’ha definito Zaia.

Mentre Pontida invoca «Salvini premier», alla convention di Fiuggi gli azzurri rilanciano «Berlusconi presidente» e quindi la presenza dell’ufficiale di collegamento fra questi due mondi antagonisti ha un significato politico. In attesa dei pontieri, allo stato si vede però solo un muro: due universi distanti, eppure condannati in qualche modo a venire a patti, ma non sarà a costo zero.

La realtà, quella che si vede, parla di un «predellino moderato» che Berlusconi sta confezionando per puntare sull’elettorato di mezzo che l’aveva abbandonato e di una rumorosa corsa estrema, tutta «contro», della Lega salviniana. Tutta a destra e parole in libertà: grandi questioni ridotte a luoghi comuni e semplificate al massimo senza alcun dubbio riflessivo, nella convinzione che l’errore abiti solo dalle altre parti.

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