La politica civile
di Moro e Pertini

In questi giorni si sono celebrati gli anniversari della nascita di due esponenti di primo piano della Prima Repubblica: i 100 anni dalla nascita di Aldo Moro e i 130 di Sandro Pertini. Poche cose uniscono queste due figure di statisti del ’900 eppure sulle loro vite mette il sigillo una frase di Pertini proprio su Moro.

Eletto presidente della Repubblica poco dopo il ritrovamento in via Caetani del corpo del leader Dc, nel primo saluto alle Camere Pertini disse: «Lui, e non io, oggi parlerebbe a voi da questo scranno se non fosse stato vilmente assassinato dalle Brigate Rosse». Un gesto cavalleresco tipico di Pertini, un po’ teatrale come era nel personaggio ma di sicura generosità. Anche se è difficile trovare punti di contatto tra i due, ha un senso celebrarli insieme perché entrambi sono rivestite di quelle virtù repubblicane che ancora oggi parlano alla parte della popolazione più avvertita e più preoccupata dal degrado della qualità della classe politica nazionale.

Innanzitutto sia Moro che Pertini incarnano un modo civile di mantenere i rapporti politici che fu tipico della cosiddetta Prima Repubblica. Pertini ebbe rapporti travagliati, per non dire pessimi, con quasi tutti gli esponenti del suo partito socialista, dai suoi coetanei ai giovanotti degli anni 80 come Craxi che semplicemente detestava. E anche Moro fu costretto a durissime battaglie dentro il suo partito dove molti lo denigravano e lo dipingevano come uno con la testa tra le nuvole, dal linguaggio astruso e dalla scarsa concretezza, tant’è che fu costretto a lunghi periodi di emarginazione.

E per quanto Pertini fosse dotato di un carattere brusco, spigoloso come le pietre della sua Liguria, e benché Moro fosse al contrario avviluppato nel suo modo di fare morbido, da democristiano pugliese, ebbene non si ricorda una sola espressione men che rispettosa verso i loro avversari politici. Pertini si sfogava alla sua maniera in privato con esplosioni di ira diventate leggendarie; Moro ironizzava in famiglia sui compagni di partito facendone l’imitazione, ma in pubblico solo parole di civile confronto: durissimo anche nella sostanza, mai nella forma. A ben pensarci, quanto si gioverebbe la cosiddetta Seconda Repubblica, di un recupero di questa civiltà per fare argine alla violenza verbale dei social media, delle dichiarazioni, dei comizi di oggi?

Secondo aspetto comune e significativo di Moro e Pertini, l’assoluta dedizione alle istituzioni. Anzi, furono proprio due personaggi «istituzionali» anche se dai percorsi diversissimi. Pertini, uomo della Resistenza, era una leggenda vivente ma non esercitò mai una vera influenza nel Psi: lo notabilizzarono subito al vertice della Camera e poi al Quirinale dove svolse la parte più significativa del suo mandato politico; Moro, che invece era uomo di partito, lavorò sempre per costruire istituzioni più solide, al riparo dai sommovimenti e dalle fragilità di una società politica ancora preda degli odi della guerra, sia di quella guerreggiata che di quella «fredda» che la seguì. Entrambi misero le istituzioni al di sopra del proprio partito, la Dc o il Psi, che consideravano uno strumento per l’interesse della nazione e dei lavoratori (come avrebbe detto Pertini) o per il bene comune (come si sarebbe espresso Moro).

Terzo elemento di attualità. L’estrema onestà personale di entrambi. Quando morirono, fecero trovare ben poca cosa agli eredi. Pertini lasciò la casuccia dei genitori a Stella- quella che oggi ospita un piccolo museo – e un prezioso archivio insieme ad una sterminata biblioteca. E anche Moro lasciò ai suoi figli il patrimonio di un qualunque professionista di buon livello: appartamento in città, casetta a Torrita Tiberina sulle colline laziali dove è sepolto. L’idiosincrasia di Pertini per faccendieri e corrotti era forse più gridata e tonante, quella di Moro venata da un certo pessimismo sulla natura umana, ma entrambi non furono mai lambiti neanche dal sospetto di un interesse personale andato oltre le regole o le semplici convenienze.

Un cattolico e un socialista; un partigiano esiliato, incarcerato e condannato a morte dai tedeschi e un giovanotto cresciuto nella cultura a-fascista della Fuci di Giovanni Battista Montini e morto sotto il fuoco dei terroristi; un uomo tutto cuore e gesti teatrali e un mediatore dai toni bassi e dalle azioni discrete; un caparbio intransigente e un ironico pessimista. Insomma due personalità assolutamente diverse, eppure entrambi hanno segnato per la loro parte il ‘900 politico italiano con uno stile, una dedizione, una capacità che oggi, guardando il nostro presente, inevitabilmente siamo portati a rimpiangere.

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