La politica monetaria
della Banca Europea

Ricalibratura della politica monetaria, anziché «tapering». Questa sintesi della decisione annunciata giovedì dalla Banca europea è certamente un po’ criptica per il risparmiatore, che vuole solo sapere come andranno i suoi investimenti, o per chi ha un mutuo variabile e si preoccupa dell’aumento dei tassi. Diciamo allora subito che si tratta di notizie buone, che possono essere guastate nel breve medio termine solo da errori della politica sotto elezioni (beati francesi, tedeschi, austriaci, che le hanno già fatte). Draghi e (quasi tutto) il suo Consiglio riunito a Francoforte, ha evitato il «tapering», adottato invece a suo tempo dagli Usa, cioè la graduale diminuzione dell’iniezione massiccia di capitali accompagnata, sia pur con molte cautele, da una restituzione dei prestiti.

Questo implica infatti una restrizione della liquidità che ricade poi su famiglie e imprese, con qualche vantaggio solo per chi cerca remunerazione finanziaria. L’annuncio della Bce è un altro: riduzione, ma continuazione del cosiddetto Qe, cioè acquisto di titoli pubblici e (importante) anche privati, scendendo nella quantità, ma comprando ancora ogni mese per 30 miliardi (oggi sono 60, nel 2016 addirittura 80), almeno fino a settembre 2018, e forse anche oltre. Ma soprattutto annunciando fin d’ora un programma di reinvestimento dei titoli in portafoglio (moltissimi tedeschi, i migliori), prolungando così per altra via una fase espansiva che ancora è necessaria.

Chi ha un mutuo variabile può insomma disporre di un orizzonte di almeno un anno, contando sull’assicurazione che Draghi ha dato: i tassi resteranno bassi, partendo dal livello zero riconosciuto alle Banche e poi, a caduta, a chi ha bisogno di denaro per lo sviluppo dell’economia.

Stiamo parlando, si badi bene, di cifre immense perché dal marzo 2015 sono stati immessi ben 2.500 miliardi. Quando si muove una portaerei così grande, le onde sono alte e i pericoli grossi, per chi non sta attento e magari rinvia i problemi perché si sente garantito dal grande fratello di Francoforte. Le cicale, si sa, muoiono ai primi freddi.

Il problema è molto delicato soprattutto per l’Italia, che ha il più alto debito europeo, Grecia a parte. Ancora prima dell’adozione del Qe, la politica monetaria della Bce ha consentito rilevanti tagli dei costi del debito. Secondo uno studio Bundesbank, dall’inizio della crisi, grazie a tassi prima bassi poi zero, ben 1.000 miliardi in meno nell’area euro (quella da cui dovremmo uscire per referendum…). Per l’Italia circa 175 miliardi, per la Germania addirittura 240 (e si lamentano). Eravamo su livelli più che doppi, ma nel 2016, abbiamo pagato interessi sul debito «solo» per il 4% del prodotto lordo. Pur sempre 66 miliardi (sottratti ad altre politiche), ma 17 miliardi meno di quattro anni prima, inizio legislatura attuale. Mentre altri «tagli» incidono per lo zero virgola, i pochi progressi del nostro bilancio sono quasi tutti qui, e solo per questo Padoan ha messo nel nuovo Bilancio una simbolica diminuzione del debito.

Il ministero dell’Economia ha fatto tecnicamente la sua parte innalzando (fino al 60%) la quota di debiti con scadenza abbastanza lunga e a tasso fisso, ma abbiamo comunque quasi mille miliardi esposti a rischi di speculazione e tempeste varie.

Ecco perché la politica non può fare sbagli. E non può farlo in particolare in quei settori – come le pensioni – in cui i mercati finanziari internazionali sono molto attenti, perché riescono qui a capire quali sono le tendenze di remunerazione del nostro debito. L’aggancio all’età media in crescita aveva dato buoni effetti. Metterlo in discussione darebbe una impressione pessima. È poco responsabile parlarne in campagna elettorale nonostante i rischi di costi aggiuntivi immediati pari allo scatto di un punto di Iva, e non basta cautelarsi dicendo che questa è solo un’ipotesi da studiare nel primo semestre 2018, perché invia segnali di inaffidabilità ai mercati internazionali e crea aspettative che poi saranno disattese, con ricadute negative sulla credibilità politica interna.

Se proprio i partiti vogliono fare proposte popolari (speriamo non populistiche), possono concentrarsi su un punto che gli esperti indicano come decisivo: la necessità di incrementare i salari e i redditi in particolare della classe media, oggi classe generale. Sta già qui la previsione degli 85 euro (5 più della cifra magica…) per il settore pubblico, perché con contratti fermi da anni, almeno non siamo (del tutto) sul terreno strumentale dell’elettoralismo. Per quello privato, ci sono gli incentivi all’assunzione che protraggono alcune parti del Jobs act, ma Richard Thaler ha preso il Premio Nobel per l’economia suggerendo che uno Stato giustamente non dirigista può tuttavia dare delle spintarelle (il «nudge» al centro del suo libro più noto) al mercato, utili per andare nella direzione migliore.

Quello da riavviare (ci sono segnali da consolidare) è comunque il circuito virtuoso dell’economia reale, che si basa su tre passaggi ineludibili: domanda aggregata (consumi più investimenti), salari, prezzi in crescita contenuta (il famoso 2% che ancora non arriva), occupazione.Ma Draghi non può arrivare dappertutto. Per questo, ha raccomandato attenzione al mercato del lavoro e alla concorrenza di beni e servizi. Parlava in inglese, ma pensava in italiano.

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