La Rai low cost
e i rischi da calcolare

La questione è di quelle che infiammano la politica e il web: riguarda lo stipendio degli artisti che lavorano in televisione, precisamente nella televisione pubblica, pagata (in parte) dai cittadini col canone e per il resto dalla pubblicità e da altri introiti. In tempi grami e di crisi, fanno sempre impressione i cachet milionari di Fabio Fazio, Antonella Clerici o Bruno Vespa, assai più di quelli di Crozza o di Giovanni Floris, milionari anch’essi ma pagati da televisioni private che si reggono solo sulla vendita degli spazi pubblicitari. È chiaro che, allo scandalo, contribuisce anche la personale antipatia che questa o quella star raccoglie tra il pubblico: se uno pensa che Fazio sia lo zerbino dei potenti, è facile che scriva a lettere cubitali «vergogna!» sulla sua pagina di Facebook; se invece apprezza Vespa, è probabile che – sia pure a denti stretti – ammetta che il padrone di «Porta a Porta» quei soldi se li merita tutti.

La pressione sui ricchi emolumenti degli artisti della Rai si è fatta più forte dopo che il governo Renzi ha spostato il pagamento del canone sulle bollette elettriche, facendo precipitare il livello di evasione fiscale che prima era tra i più alti nel mondo e oggi è stato quasi azzerato. Con quei soldi assicurati, è stato il ragionamento dei partiti sia di maggioranza che di opposizione, la Rai può fare a meno anche di parte della pubblicità e dunque non c’è bisogno di reclutare i presentatori a peso d’oro per raccogliere più pubblico e quindi più spot.

La Rai ha provato in tutti i modi a fare resistenza: prima, ricordando che dirigenti e giornalisti dipendenti avevano subìto senza fiatare il tetto agli stipendi a 240 mila euro lordi all’anno (l’amministratore delegato Campo Dall’Orto si è visto ridotto del sessanta per cento lo stipendio in un colpo solo) e quindi che l’azienda aveva già dato un segnale di forte sobrietà; secondo, che non tutti i soldi del «nuovo» canone vanno nelle casse di viale Mazzini, perché anzi il ministero del Tesoro ne trattiene una parte anche crescente - ricordate il salasso di 150 milioni deciso agli albori del governo Renzi? - e poi, terzo argomento, avvertendo che mettere un tetto anche ai compensi artistici porterebbe la Rai fuori mercato, e minerebbe la sua capacità concorrenziale con grande vantaggio per i competitori privati e danni potenzialmente enormi per l’azienda pubblica.

Tutti argomenti ineccepibili che però non hanno smosso la politica che, sull’onda dell’indignazione dei social, ha stabilito il tetto con una legge votata trasversalmente. Le proteste delle star non hanno fatto che peggiorare il clima: «Zitto tu che guadagni 42 mila euro al mese!» ha urlato Paolo Cirino Pomicino al conduttore dell’Arena domenicale Claudio Giletti che gli stava rinfacciando le tangenti dei tempi d’oro. Né sorte migliore è capitata alle lamentele pubbliche di Fazio.

Il punto è però che tutti (anche il grillino Fico, presidente della Commissione di Vigilanza Rai) sanno che davvero con quel vincolo la Rai andrebbe velocemente in pezzi: chi vorrebbe prendersi la responsabilità di Sanremo per una cifra fuori mercato? E chi vorrebbe girare le puntate di Montalbano che mettono davanti al televisore otto milioni di italiani e raccolgono ricchi spot pubblicitari? La Rai low cost farebbe insomma la fine dell’Alitalia.

Un modo per uscirne va trovato: senza irritare l’opinione pubblica ma anche senza mettere a rischio un’azienda pubblica importante come quella del Cavallo. Questa via d’uscita l’ha trovata l’Avvocatura dello Stato che ha giudicato il tetto parzialmente illegittimo, e questo dà la possibilità al governo di porre rimedio all’imbarazzo. È probabile che le cosiddette star pagheranno comunque la faccenda con sostanziosi tagli ai loro compensi, ma senza che questo li faccia fuggire verso Mediaset, Sky o Discovery.

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