La scelta del silenzio
per scuotere il mondo

Senza silenzio non possono sussistere le parole. E il Papa che ama parlare chiaro, parole vigorose, perfino a volte con un lessico politicamente scorretto scuote il mondo con il silenzio di Auschwitz. Nel campo osceno dell’industria della morte il silenzio è l’unica categoria decisiva. Davanti all’iniquità assoluta del male, nel cuore della follia della «soluzione finale» solo il silenzio può parlare.

Accade così tra questi campi verdi punteggiati di betulle bianche. Il silenzio è l’esperienza più drammatica per tutti coloro che sono stati ad Auschwitz e a Birkenau. Bergoglio davanti alla crudeltà ha scelto di ammutolire, perché le parole qui soffocano, perché le uniche che puoi ascoltare sono quelle del silenzio.

Lo aveva già fatto al Memoriale del genocidio armeno e al Sacrario militare di Redipuglia. Ieri c’era solo il vento e rumore dei passi sul selciato a segnare le tracce del male assoluto e l’orizzonte della tragedia. Una volta erano urla di terrore, pianti di bambini, colpi secchi delle armi, osceno sfrigolare della elettricità nei fili spinati. Manca il sonoro nei filmati girati dalle SS. Almeno ci hanno risparmiato una parte dell’orrore. Il silenzio è il vero monito per chi arriva fin qui. I vagoni, i blocchi, le rotaie, i forni crematori, i resti delle cose dalla vita, gli occhiali, le scarpe, le gavette, i capelli e gli abiti, e poi le fotografie vanno contemplate in silenzio. Sulla soglia dell’angoscia, sotto quella scritta beffarda, quell’Arbeit macht frei che marca lo sterminio e marchia per l’eternità la coscienza del mondo, Bergoglio passa da solo e ascolta il silenzio. Lo percuote come un maglio, quando si siede e prega, gli occhi fissi a quei pali di legno dove i nazisti appendevano gli impiccati e li lasciavano soffocare piano come ammonimento.

Ma questo silenzio non è una prigione, neppure qui. Auschwitz è un monito e l’unico modo perché la memoria non divida è colmarla di silenzio e accendere una fiammella, come ha fatto Bergoglio. Il silenzio non è tutto uguale. C’è il silenzio traboccante di rancore e il silenzio straripante di amore, di attenzione,, perfino di azione, sicuramente di preghiera. Joseph Ratzinger disse una volta che Dio parla nel mistero del suo silenzio. Accade anche ad Auschwitz. Altro che silenzio di Dio. Dio, il Dio di ogni uomo, qui parla eccome e con parole più efficaci delle parole e di qualsiasi musica. Parla con la «nota muta», la nona nota, quella che Beethoven sapientemente intrecciava alle altre otto nelle sue sinfonie.

Il silenzio per Bergoglio, come per Beethoven non è una prigione, ma è libertà. Non lo teme. Silenzio con la mano appoggiata al muro delle esecuzioni, silenzio e un bacio al palo dove la vita scivolava. Nessuna paura, nessuna orditura con il vuoto, sensazione che a tratti il silenzio è in grado di provocare.

Ad Auschwitz l’impressione di una contrapposizione tra pieno e vuoto, di un contrappunto furioso tra l’incubo del cinismo e l’assoluta disarmante impotenza davanti alla perfezione dell’odio e della violenza percuote e trafigge il corpo oltre che l’anima. Si fatica a camminare lungo la Judenrampe, selezione degli ebrei e di tutti gli altri, anticamera della fine. Il silenzio aiuta ad andare avanti. Non il contrario, perché il silenzio è eloquente, permette di veder meglio le tracce che quel male ci ha lasciato e la nostra epoca continua ad inseguire.

Il silenzio è un aiuto decisivo. Il Papa ieri lo mostrato al mondo quel silenzio, ma senza stravolgere la sintassi della comunicazione, senza sbaragliare le regole, messaggio puro, preciso, esemplare. Nel silenzio non si dimentica nulla, tutto torna nel silenzio. Ieri lo ha spezzato solo il canto del Kaddish, il canto del lutto degli ebrei, corona e culmine del silenzio, assenza di parole proprio per renderle più vere, liberate dal cumulo delle abitudini e spesso anche delle menzogne, grande lezione di Jorge Mario Bergoglio

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