La vera maturità
Educare alla virtù

Ci siamo. Anche quest’anno, per circa mezzo milione di studenti è iniziata la liturgia laica degli esami di Stato. Tra notti insonni, ansie da prestazione, libri compulsati, appunti sparsi un po’ ovunque e ripassi dell’ultima ora, le giornate dei nostri ragazzi saranno scandite dallo scritto d’italiano, comune a tutti gli indirizzi di studio, dalla seconda prova, che varia in base al tipo di scuola che è stata frequentata, dal cosiddetto «quizzone», per concludersi con l’orale.

L’esame finale con queste modalità dovrebbe essere l’ultimo, poiché dall’anno prossimo partirà quello previsto dalla riforma «Buona Scuola», che porterà all’abolizione delle tre prove scritte, a un ritorno ai due classici scritti (italiano e prova d’indirizzo), dando maggior peso al curriculum scolastico, alla relazione sull’alternanza scuola-lavoro, all’orale e alle prove Invalsi.

L’anno scorso i promossi sono stati quasi il 100% dei candidati ammessi. Per la precisione, stando ai dati del Miur, il 99,5%. E alcuni commentatori, non senza qualche ragione, si sono pertanto chiesti che senso abbia continuare a fare gli esami di Stato nei modi in cui si svolgono oggi, visto che poi la promozione è assicurata pressoché a tutti. In altre parole, anche quest’anno in parallelo alla liturgia degli esami ha preso avvio la liturgia del dibattito sul ruolo e sul valore di esami così poco selettivi. Anzi, c’è perfino chi propone di abolire l’esame di Stato, reso necessario per la sua connessione con il valore legale del titolo di studio. Un’ipotesi, com’è noto, fortemente osteggiata da gran parte del mondo della scuola.

Non è mia intenzione entrare nel merito di questo dibattito, che considero un po’ troppo schematico e a tratti sterile. Credo tuttavia che sia piuttosto urgente una riflessione costruttiva sul percorso non solo valutativo, ma anche formativo, lasciando sullo sfondo la questione di quale sia la migliore modalità per concludere il ciclo scolastico di secondo grado.

Mi spiego. Anche se stiamo parlando di un esame di Stato, continuiamo tutti a chiamarlo ancora «esame di maturità», quasi fosse un momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Insomma, un vero e proprio rito di iniziazione alle responsabilità che attendono le giovani generazioni, come se, dopo questa prova, diventassero a pieno titolo cittadini, cittadini consapevoli e appunto maturi. Ebbene, anche in questo caso non sono in pochi – con tanto di studi sociologici alla mano – a sostenere che i veri momenti di assunzione di responsabilità si sono spostati per i ragazzi di oggi molto più avanti rispetto all’età in cui concludono il percorso di studi di secondo grado.

Sono però convinto che si tratti di una questione mal posta, perché appunto si dà troppa enfasi alla prova finale, senza tener conto che la vera maturità è un processo graduale, che avviene giorno dopo giorno. Ovviamente non solo a scuola, ma dove la scuola ha un ruolo decisivo, non foss’altro che qui i ragazzi, fino all’esame di maturità appunto, vi trascorrono gran parte del loro tempo. Ed è qui che, oltre all’aspetto valutativo e formativo, dovremmo interrogarci su qualcosa che sembra diventato fuori moda, ma che è quanto mai vitale: l’educazione. Proprio quell’educazione di cui parlava Natalia Ginzburg quando, ne Le piccole virtù, scriveva: «Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnare loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e sapere». Ecco, è attraverso la faticosa conquista di queste grandi virtù che la scuola può aiutare i giovani a diventare maturi, non nascondendo loro che lo studio, al di là di tutte le prove che dovranno sempre affrontare, non è cosa accessibile senza impegno e qualche sacrificio.

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