Le imprese italiane
Il problema del nanismo

Lo straordinario sviluppo economico che ha interessato il nostro Paese negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, con incrementi del Pil tra il 5 e il 6% annui, ha avuto come grandi protagoniste soprattutto tante piccole aziende a conduzione familiare. La crisi petrolifera del 1973 e il successivo processo di internazionalizzazione dei mercati, culminato con la globalizzazione degli anni ’90, hanno trovato molte di queste imprese impreparate nell’affrontare una concorrenza sempre più agguerrita. La situazione si è resa ancor più difficile nel corso della crisi economica degli ultimi anni che ha reso marginali tante piccole aziende avviandole al fallimento.

Oggi è in corso un ampio dibattito sulle prospettive di questo importante settore dell’economia, partendo dalla convinzione che la retorica del «piccolo è bello» debba essere responsabilmente superata per varie ragioni. Nel confronto internazionale le piccole imprese italiane risultano molto più frammentate e, soprattutto, occupano uno spazio troppo ampio del settore industriale condizionandone, nel complesso, le capacità competitive.

Una recente analisi di Bankitalia evidenzia che il valore aggiunto delle piccole imprese insieme all’aspetto occupazionale rappresenta una quota del 70% del totale, con punte fino all’80%. Nel confronto con i dati medi europei, questo valore è superiore del 10%. Differenze molto più elevate si riscontrano confrontando le imprese con meno di 10 addetti, che in Italia generano occupati per 7,8 milioni, pari al 47% del totale, rispetto alla media europea che si attesta ben al di sotto, con il 29%. Va osservato, che le capacità concorrenziali vengono incentivate dalla attitudine ad innovare i processi di organizzazione e di prodotto attraverso investimenti in «capitale umano» e l’apertura a conoscenze specialistiche ed avanzate. Questi processi trovano una più agevole realizzazione in economie di scala.

È evidente, quindi, l’oggettiva difficoltà incontrata da molte piccole imprese che potrebbe essere superata, in buona misura, attraverso strategie aggregative che si presentano, però, ancora poco diffuse. Ad ostacolarle contribuisce soprattutto una cultura troppo ancorata alla concezione «padronale» dell’impresa e alla natura familiare della proprietà, restia ad opportune aperture esterne anche nelle fasi di ricambio generazionale. Un ulteriore ostacolo alla crescita dimensionale, è rappresentato dallo scarso sviluppo della finanza d’impresa, per una diffusa incomprensione dei vari meccanismi finanziari. Ciò è evidenziato nelle piccole imprese dall’enorme squilibrio tra debito e capitale di rischio, che viene ancor più accentuato dalla scarsa diversificazione del debito, concentrato presso le banche.

L’eccessiva dipendenza dalle stesse ha riflessi particolarmente negativi in periodi di crisi, quando viene contenuta l’offerta di credito in presenza di posizioni di dubbio realizzo. Va detto, peraltro, che la deducibilità delle spese per interessi nel nostro ordinamento tributario, specie quando gli interessi erano di una certa consistenza, ha incentivato imprese grandi medie e piccole a ricorrere al debito piuttosto che al capitale di rischio. Ne consegue, come Bankitalia ha evidenziato sulla scorta dei dati di bilancio al 2013, che per allineare la leva finanziaria delle società italiane con quelle delle imprese dell’area euro, sarebbe necessario sostituire con il capitale di rischio un ammontare di debiti finanziari superiori a 200 miliardi di euro.

Naturalmente per raggiungere in tempi non troppo lunghi questo risultato si renderebbe necessaria una rivoluzione culturale sul piano finanziario, che è già intervenuta in molte grandi e medie imprese ma che è lungi dall’essere avviata nelle piccole. A queste, di grande aiuto può essere il progetto avviato dalla Commissione europea di una «Capital market union», con l’obiettivo di fornire maggiori informazioni circa l’opportunità di avvalersi dei servizi di intermediari specializzati come fondi di «private equity» o di «private debt» e delle opportunità offerte da operazioni di «venture capital».

C’è da augurarsi che i primi e tanto attesi segnali di ripresa, ancora assai timidi, siano di stimolo per l’intero settore delle piccole imprese ad aprirsi alle logiche del mercato, ponendo in essere le strategie innovative ed organizzative indispensabili per uscire dalla «trappola della mediocrità» nella quale sono incastrate da oltre 20 anni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA