l’Europa in crisi
Il ruolo dell’Italia

La sempre maggiore centralità, nel bene e soprattutto nel male, della nuova Russia, conferma che l’orizzonte europeo è sempre più solo un segmento dei problemi contemporanei, alla luce di equilibri planetari pluridecennali rimessi in discussione. Ne fanno parte l’elezione a vita del Presidente cinese, il trionfo «democratico» del moderno zar russo, la leadership americana, turbolenta e imprevedibile, ma certo non più solidamente amichevole. È importante capire come si pone l’Italia in questo quadro dinamico, perché non sia il classico vaso di coccio con l’aggravante della benevolenza acritica verso equilibri che possono farle male.

Il tema europeo è stato uno dei feticci polemici delle recenti elezioni. Anche se ora le priorità sono altre e non sappiamo neppure quale governo si farà, il dato della politica europea italiana deve tornare centrale, soprattutto evitando di isolarsi. La stessa Europa è stretta in una specie di tenaglia: è minacciata all’interno dall’insorgenza populista e sovranista e dall’esterno dalla minaccia protezionista che viene dal suo partner naturale, gli Usa. Nel 2017 le avanzate populistiche si erano sgonfiate in tutte le elezioni nazionali (Olanda, Francia, Austria, Germania), ma ora che l’Italia, per non farsi mancare nulla, di populismi ne ha proposti addirittura due, i rapporti tornano a pendere diversamente: sono la seconda forza, anche considerando i sondaggi che danno in Germania AfD sopra l’Spd.

Quanto alla questione dazi la minaccia è ancor più attuale. Solo quelli minacciati sull’acciaio e alluminio possono costare 160 mila posti di lavoro europei. Ma sono in ballo miliardi, dall’automobile ai macchinari, all’agroalimentare, alla moda, alle gomme, alla farmaceutica. La nostra ripresa è tutta legata all’esportazione e il Nord, a cominciare dalle province prealpine, potrebbe risentirne pesantemente. Mezzo secolo di sforzi per sviluppare il libero commercio sono a rischio in nome della dottrina «America first». Eppure quei trattati transoceanici, quegli sforzi per combattere le diseguaglianze del lavoro, erano anche il frutto di una lezione storica, dopo due guerre mondiali e la fine dell’epoca coloniale, perché il protezionismo – insieme all’imperialismo che ne è parente - ha sempre preceduto o spiegato le guerre.

Una crisi esistenziale europea, sotto i colpi di Trump e dei suoi ammiratori, incrementata dalla parallela crescita della Russia di Putin, anch’egli con tanti ammiratori in Italia, porterebbe guai seri per la nostra economia. Ma soprattutto: quale Europa abbiamo a riferimento? Ce ne sono almeno tre diverse, e la sfida per l’Italia è anche una scelta. La prima è quella di stare con Francia, Germania, Spagna e Portogallo, gli unici che hanno razionalizzato il populismo: gli interlocutori sono, piaccia o non piaccia, Macron e Merkel. Solo con loro si può resistere (Europa first) alla politica divide et impera di Trump e procedere su Unione bancaria, bilancio comune, Ministro unico delle finanze. È l’opzione Gentiloni, oggi però non più in grado di svilupparla.

La seconda è fare i conti, da soli, con il blocco degli 8 Paesi (Olanda, Svezia, Finlandia, Danimarca, Islanda, nonchè i tre Baltici) inorriditi se sentono parlare di reddito di cittadinanza, controriforma pensionistica, vincolo del 3% da superare. Sono i custodi dell’austerità totale, favorevoli al mostro fiscal compact, che si mangerebbe da solo tutte le miliardarie promesse elettorali del 4 marzo.La terza opzione è quella del selfie di Giorgia Meloni con l’autocrate di Budapest. È l’Europa della chiusura, dei muri (l’Italia si arrangi e si tenga i migranti) e della pretesa di ricevere senza dar nulla in cambio. Escludendo un Italexit che sarebbe devastante, alla luce proprio dell’esperienza e dei ripensamenti britannici, occorrono idee chiare e molto realismo sulle necessità del Paese. Eppure, il «governo di scopo» che oggi sarebbe più utile a mettere in sicurezza l’Italia, cioè un governo che sappia stare in Europa, è allo stato il meno probabile…

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