Nutrire il Pianeta
e ritrovare la fiducia

Un sacchetto di semi in mano a Letizia Moratti, che come testimonial del terzo mondo non sembrava molto credibile. Tutto cominciò così il 31 marzo 2008 quando l’Italia vinse la candidatura per Expo con il titolo mellifluo e molto slow food «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Uno slogan perfetto per ottenere i voti dei delegati africani, abbracciare un tema ecumenico che va dalle pianure del Montana alle foreste del Sertao passando per l’arido Sahel e lasciare con un palmo di naso Smirne che proponeva il più questurino «Sicurezza».

Sette anni dopo ci siamo, con l’ultimo chiodo dei lavoratori bergamaschi battuto dentro l’ultimo infisso. Squadre formidabili come quelle dei meccanici ai box di Formula 1; gente tosta che nella storia è orgogliosa di aver costruito Milano, figuriamoci che problema poteva avere nel realizzare l’Expo dove la metropoli diventa tangenziale e i centri direzionali lasciano il posto al carcere di Bollate.

Oggi si comincia sapendo che sono in gioco la reputazione e l’orgoglio di un Paese troppo emotivo e troppo poco razionale per non rischiarli entrambi. L’Expo arriva sull’onda dei mal di pancia politici, del grigio cinismo dei media e di una negatività diffusa che in questi anni s’è incistata nel carattere dell’italiano medio, incupendone l’ottimismo e appesantendone la creatività. «Siamo in ritardo» ripetono tutti come un mantra ed è vero. Pur avendo sette anni di tempo a disposizione abbiamo visto concretizzarsi il primo bando tre anni e mezzo fa, ed era quello della bonifica dell’area. La prima ruspa è comparsa in quell’enorme campo di stagni e corvi nell’ottobre del 2011 con a bordo Roberto Formigoni.

Un miracolo, più o meno come al solito. E allora guardiamolo in positivo, ricordando che la prima esposizione universale in Italia (era il 1906) in realtà doveva svolgersi nel 1905 per celebrare il traforo del Sempione. Ma i lavori anche allora andarono per le lunghe e fu spostata di 12 mesi. Ora abbiamo il fiatone e la cravatta di sghimbescio ma ci siamo, dentro un’area grande come duecento campi di calcio, con 86 palazzi distribuiti lungo due viali da un chilometro, con una spesa di 1,3 miliardi e un’ipotesi tutta da verificare di finire in pareggio. Ci siamo, dopo quattro governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), la solita caccia al ladro negli appalti e terrificanti lungaggini burocratiche che impiombano le ali al Paese.

In queste settimane abbiamo imparato una parola nuova, camouflage, che sta a indicare le coperture di abbellimento dei cantieri ancora aperti; quei teloni sono costati oltre due milioni e mezzo di euro, significa che non sono pochi. Ma per non lasciare il cerino acceso in mano all’ultimo arrivato (sport nazionale) è bene ricordare i primi tre anni buttati via. Con l’ex ministro Stanca che voleva la sede a palazzo Reale. Con le liti fra Comune di Milano, Provincia e Regione. Con Tremonti che ha tagliato i finanziamenti per via della crisi e poi ne ha dirottati altri - e pure giustamente - per il terremoto de L’Aquila.

Eppur si muove. Si muove una Milano che sembra più europea; si muove una Bergamo che in queste settimane ha ricominciato a pulsare, a inaugurare, a progettare. E potrebbe muoversi anche un’Italia che ha bisogno come l’aria di ritrovare la bussola della fiducia. Se fra sei mesi l’Expo ci avrà restituito tutto questo avrà avuto successo. Ma saremo noi con il nostro coraggio, con la nostra positività ad essere l’ago di quella bussola. Diceva Bob De Niro in un film: «C’è chi fa parte del problema, chi della soluzione e chi del paesaggio». Possiamo persino scegliere.

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