Occhio ai conti
in attesa del governo

In attesa del governo prossimo e (forse) futuro, può essere utile un piccolo promemoria per chiunque si trovi a prendere decisioni, realizzare promesse, abbattere scelte precedenti. A non far nulla, ma proprio nulla, già servono 20 miliardi, più probabilmente 25. L’Europa, che non è guidata da burocrati come si suole dire, ma da politici, ammetterà uno slittamento appunto «politico» dei tempi del Def per il triennio prossimo, ma gli ultimi dati forniti dalla nostra Istat non consentiranno probabilmente tolleranze nel merito, a cominciare dai conti 2018, tutt’altro che chiusi: è qui che ballano i 5 miliardi da aggiungere ai 20 da trovare ora per il 2019. Il ricalcolo del rapporto deficit/debito, a causa dell’impatto contabile del salvataggio delle banche venete, sale dal 1,9% al 2,3%, così come il debito sale di tre decimali al 131,8% del Pil.

Bruxelles ha per questo motivo un filo diretto con il presidente Mattarella, che a sua volta pare apra tutte le sue consultazioni con riferimento al tema delle compatibilità europee. I 20 miliardi sono la somma di sole tre voci nuove: i costi correnti delle missioni all’estero, gli aumenti contrattuali degli statali e i 12,5 miliardi di scatto Iva automatico (19,2 per l’anno dopo) a copertura - e pegno - di spese già in atto, come fu deciso nel 2010 da Tremonti, consolidato da Monti e mai più modificato.

Dunque 20 miliardi solo per non far nulla: né tagliare (gli 80 euro, le assunzioni della cosiddetta buona scuola, gli incentivi 4.0, i risarcimenti ai risparmiatori truffati) né tantomeno spendere per i programmi elettorali più identitari (flat tax, reddito di cittadinanza, immigrazione) e altre priorità da scegliere a piacimento: investimenti pubblici (-28% negli ultimi 7 anni), formazione, ambiente, protezione civile, ricerca. Il tutto, pensando comunque all’occupazione, problema prioritario.

Se anche si restasse immobili, e abbiamo visto che è impossibile, continuerebbe poi a girare il contatore del debito pubblico. Bisogna continuamente rinnovarlo, e nel 2018 servono 257 miliardi, l’equivalente di quasi tutta la spesa pensionistica e assistenziale. A settembre, si chiude l’ombrello del Qe di Draghi, che nel 2017 ha provveduto a coprire il 49% delle emissioni a medio lungo termine per far funzionare casa Italia. Quest’anno provvederà solo al 25% e nel 2019 solo al 15%. Al resto debbono pensare i privati, in gran parte stranieri, e c’è già il più grosso fondo mondiale che ha rallentato gli acquisti fin d’ora. Saremo presto senza ombrello, sotto la pioggia.

Al momento tutto sembra tranquillo, ma se parte la speculazione, siamo di nuovo sull’orlo della catastrofe. Lo spread dorme, ma siamo in Europa i più distanti dal riferimento tedesco. Il grosso lavoro fatto dal Portogallo, forse l’unico Paese immune da pulsioni populistiche, lo ha portato a sorpassarci. La Spagna lo ha già fatto da un pezzo, e di 100 punti. Il debito procapite della Grecia è migliore del nostro. Potremmo chiedere altra flessibilità a Bruxelles, ma o si tende la mano o si battono i pugni sul tavolo, come si sente dire.

Per farcela da soli, dovremmo agire come si fa in casa o in bottega: incrementare il fatturato in entrata e costruire un attivo tra spese e ricavi correnti, al netto degli interessi. Quest’ultimo, in finanza pubblica, si chiama avanzo primario. Molto facile da dissipare con qualche mossa spettacolare, difficilissimo da costruire. Guardando al passato ci sono voluti sacrifici enormi, tra il 1992 (svalutazione della lira) e il 1997 (governo Prodi), per andare da zero a +6%, ma nel 2005 tornò a zero. Oggi è all’1,9%, ma per fronteggiare i problemi di cui sopra dovrebbe arrivare almeno al doppio. La speculazione, ricordiamolo, scatta se il debito non è sostenibile.

Il quadro qui indicato ha sostanzialmente evitato di toccare qualsiasi nervo scoperto. Non abbiamo parlato né di sussidi generalizzati, né di legge Fornero, anche se il Fmi ci ha appena detto che quella legge andrebbe rafforzata, non indebolita, visto che le stime demografiche su cui è basata sono troppo ottimistiche. Nei prossimi 40 anni il rapporto tra inattivi e attivi salirà dal 33% al 67% (due italiani pensionati su 3). Insomma siamo appesi ad un filo, in equilibrio instabile. Se soffia il vento del tutto subito o anche del voglio troppo, si casca.

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