Ombre sul lavoro
Serve più fiducia

Arriva il dato sull’occupazione dell’Istat di luglio. Possiamo già dire che risente degli effetti del cosiddetto Decreto Dignità del Governo (che ha portato a una stretta sui contratti a termine). Numeri non belli, per usare un eufemismo. L’occupazione è in calo (in Italia ci sono state 28 mila assunzioni in meno rispetto a giugno) e la contrazione riguarda il nocciolo della forza lavoro italiana, ovvero i dipendenti tra i 15 e i 49 anni. La situazione è piuttosto incerta, tra luci e ombre, poiché gli occupati ad aprile, maggio e giugno sono pur sempre aumentati dello 0,7 per cento rispetto ai tre mesi precedenti. Su base annua, rileva ancora l’Istat, l’occupazione a luglio è cresciuta dell’1,2 per cento rispetto al luglio 2017.

L’espansione si concentra tra lavoratori a termine, mentre diminuiscono i dipendenti permanenti. Infine, in calo la disoccupazione giovanile, al 30,8 per cento, sempre alta, ma ai minimi termini dall’ottobre del 2011.In Italia il tasso di disoccupazione generale è sceso al 10,4 per cento, con un calo di 0,4 punti percentuali. In questo quadro l’Italia resta al terzo posto tra i Paesi europei per tasso di senza lavoro, dietro Grecia e Spagna: nel resto della Ue, secondo Eurostat, la disoccupazione ha segnato il picco più basso da aprile 2008, scendendo al 6,8 per cento, mentre nell’Eurozona è rimasta stabile rispetto a giugno all’8,2 per cento, il minimo da novembre 2008. Se restiamo ai dati macroeconomici, l’inflazione è salita all’1,7, per l’impennata del prezzo dei biglietti aerei. Che autunno ci aspetta? Non certo quello di una ripresa impetuosa. L’Italia è quella che ha una crescita più lenta rispetto al resto d’Europa, perfino paragonata alla Grecia, che è appena uscita dal protettorato della «Troika», non ha più debiti (al prezzo di un impoverimento spaventoso che ha devastato i ceti meno abbienti), e può ricominciare a pensare al suo futuro. Nella crescita economica il fanalino di coda dell’Europa. Manca il colpo di acceleratore, l’impennata che dovrebbe far ripartire l’economia italiana, anche se rimaniamo la seconda manifattura d’Europa e vantiamo un surplus commerciale (la differenza tra import ed export) di 47,5 miliardi di euro.

L’export purtroppo non basta. L’origine della debolezza dell’economia italiana è la mancanza di consumi che rappresentano - tra quelli privati e pubblici - l’80 per cento del Prodotto interno lordo italiano. Le imprese sono pronte, l’offerta ci sarebbe (il ricorso alla cassa integrazione è dimezzato rispetto allo scorso anno), ma le imprese non investono se non sanno a chi vendere i loro prodotti o servizi, rischiando di stoccare la merce nei magazzini, così come le famiglie non spendono in un clima di incertezza sul lavoro e sul reddito. Il Governo dovrebbe instaurare un clima di maggiore fiducia, ma tutto questo all’orizzonte ancora non si vede. Servirebbe un «New Deal» all’italiana, capace di rinnescare il ciclo virtuoso consumi-produzione-occupazione. Restano poi le incertezze legate al nostro debito pubblico. La pressione sui titoli di Stato italiani, con lo spread che è risalito, non soltanto penalizza le banche (tra le maggiori detentrici dei titoli di Stato), come si è visto in Borsa, ma pone il Paese sotto la lente dei grandi investitori internazionali, minacciando una crisi simile a quella che colpì il governo Berlusconi nel 2011. Non aiutano le dichiarazioni del sottosegretario Giorgetti, la «mente economica» di questo Governo (con tutto il rispetto per il ministro dell’Economia Tria), che ieri ha fatto intravvedere uno sforamento del deficit del tre per cento nel caso di investimenti «per la sicurezza» rispetto ai parametri imposti da Maastricht. Vedremo nei prossimi giorni cosa ne pensano, non tanto gli eurocrati (ultimamente tendenti all’indulgenza, almeno a parole) ma i mercati.

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