Per Trump in Asia
doppio salto mortale

Fu vera gloria? Tutti coloro che hanno seguito il viaggio di Donald Trump in Asia si sono posti la stessa domanda. Viaggio da osservare con attenzione, il più importante tra quelli finora intrapresi dal milionario-presidente: dodici giorni, cinque Paesi visitati (Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine) e decine di leader e dirigenti incontrati su un fronte, quello del Pacifico, che da anni è un punto cruciale per la politica estera americana, ragione che spinse Barack Obama a darsi molto da fare per costruire quel Trattato Trans-pacifico tra tredici Paesi che lo stesso Trump ha poi rinnegato. Al centro degli incontri e dei colloqui, com’era chiaro già alla vigilia del viaggio, c’erano due temi ben precisi: la minaccia nucleare della Corea del Nord e i trattati commerciali. Ed è su questi temi, dunque, che si deve misurare la riuscita o il fallimento del tour di Trump, anche se è chiaro che gli Usa di Trump, non solo nel Pacifico ma qui in particolar modo, sono impegnati in una specie di doppio salto mortale. Da un lato devono ribadire lo slogan «America first» (Prima di tutto l’America), che ha portato Trump alla Casa Bianca, dall’altro rassicurare gli alleati. Da un lato affermare la volontà di rinegoziare trattati e patti commerciali a favore dei produttori americani e dall’altro confermare una presenza economica e militare americana che da queste parti, per Paesi come il Giappone o la Corea del Sud, è un importante tranquillante.

Compito improbo e bilancio quindi non facile. Trump, che ripartendo per Washington ha detto di voler fare un annuncio importante una volta tornato alla Casa Bianca, è stato accolto quasi ovunque con sfarzo e calore ma le cerimonie non fanno politica. Ed è anche chiaro che dei due temi importanti del viaggio, uno, l’escalation nucleare della Corea del Nord, aveva un esito quasi scontato. Nessuno, nel Pacifico, sottostima le provocazioni missilistiche di Kim Jong-un, tutti le temono, persino i cinesi (che della Corea del Nord sono grandi sponsor) ne sono infastiditi e vorrebbero chiaramente voltare pagina.

Facile quindi incontrarsi e concordare su questo tema. Trump e i suoi consiglieri, inoltre, hanno avuto l’accortezza di evitare i toni duri e, rinnovando la disponibilità al dialogo e mettendo la sordina alle minacce militari, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a un alleato importante come la Corea del Sud, che in caso di scontro si troverebbe sulla linea del fronte, esposta alle eventuali rappresaglie della Corea del Nord.

Sul fronte economico, invece, il mistero è fitto. La tappa più importante sotto questo aspetto era ovviamente quella in Cina, nei mesi scorsi preceduta da una lunga serie di annunci sulla volontà di correggere le relazioni commerciali bilaterali che nel 2016 hanno visto la Cina in attivo per 347 miliardi di dollari. Una volta a Pechino, però, la delegazione americana (di cui facevano parte anche i dirigenti di aziende come Boeing, Goldman Sachs e Westinghouse Electric) è parsa intenta più a firmare nuovi contratti che a discutere di riforme strutturali (per esempio le restrizioni che i cinesi impongono alle attività bancarie dall’estero) o dei provvedimenti che il Congresso sta discutendo per limitare gli investimenti cinesi negli Usa, l’importazione di pannelli solari, acciaio, alluminio e altri prodotti che, secondo l’amministrazione americana, vengono esportati a prezzi tenuti artificialmente bassi dai sussidi governativi.

Superato così lo scoglio cinese, il resto è venuto quasi di conseguenza ma, proprio per questo, senza troppa importanza. In Giappone ha ripetuto il concetto già esposto ai cinesi sulle relazioni commerciali da correggere ma non è andato molto più in là. E in casa di un alleato storico che si sente minacciato dai missili della Corea del Nord non si poteva nemmeno insistere troppo. In Corea del Sud, invece, Trump ha ottenuto una vittoria, perché il Governo locale si è detto d’accordo con la sua volontà di rinegoziare il patto di libero scambio ratificato nel 2011, epoca Obama-Clinton, e da Trump criticato fin dalla campagna elettorale.

Poca roba, insomma. Comunque nulla di straordinario. Il segno di un bisogno di compromesso, di un’America che non può essere «first» se compromette le relazioni con gli alleati, che di giorno in giorno Donald Trump va scoprendo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA