Preoccupano gli squilibri
della spesa pubblica

Viviamo anni travagliati e al contempo di pace. In Europa quantomeno. Credere però che, siccome le armi tacciono, tutto sia diventato più facile è l’illusione dalla quale occorre preservarsi. Il benessere acquisito, la disabitudine allo sforzo e alla rinuncia, la convinzione che prima vengono i diritti e poi forse il dovere, che le regole sono fatte per essere violate, che l’interesse personale è a scapito di quello collettivo, che la rassegnazione deve fare il paio con la rilassatezza dei costumi e il desiderio di trasgressione, tutti questi sono i costi classici di una società contradditoria con grandi disparità sociali ma nel complesso sazia.

Se a questo aggiungiamo che la componente anziana tende a prevalere per un processo di invecchiamento della popolazione e un calo delle nascite il risultato è una tendenza alla conservazione degli equilibri raggiunti. La società italiana è statica e teme i cambiamenti. Una parte del mondo industriale, delle professioni, in questi anni si è mossa con energia e ha conquistato mercati internazionali ma si tratta pur sempre di una minoranza. Il vero problema è che il Nord industriale che ha tirato la carretta per tutti questi decenni non produce più il surplus necessario per garantire al Sud il trasferimento delle spese correnti in forma di assistenzialismo sociale. È noto che nel tempo l’economia sociale di mercato si è trasformata in Italia in economia assistenziale di mercato. Dal rapporto del Centro Studi e Ricerche Itinerari previdenziali emerge che nel 2015 i versamenti di contributi Inps provengono per il 63,54% da otto regioni del Nord, il 20% da quattro regioni del Centro e 16,44% da otto regioni del Sud. Una condizione che si riflette in termini di squilibrio finanziario perché le regioni meridionali usufruiscono del 24,40% delle uscite per le prestazioni. Il che vuol dire che lo Stato trasferisce al Sud mille euro per abitante contro i 474 delle regioni settentrionali. Il problema è che la forbice tra Nord e Sud in termini di produzione di ricchezza anziché ridursi è aumentata. Ma al tempo stesso anche quella del Nord è diminuita per gli effetti della crisi economica, del calo demografico, dell’aumento delle spese sociali.

Se a questi fenomeni aggiungiamo gli sperperi e la corruzione che ancora segnano la vita pubblica del Paese, giungiamo alla facile conclusione che alla lunga sia il Nord che il Sud saranno votati al declino economico. C’è bisogno di un cambio di rotta. Per esempio ha senso che la Regione Sicilia abbia un numero di dipendenti che è il doppio di quello della Lombardia ma con la metà degli abitanti? Che i dirigenti regionali siciliani siano 1.692 mentre le 15 regioni a statuto ordinario ne hanno 1.919 ? E che dire dei 24.880 forestali e lavoratori socialmente utili? È nell’ordine delle cose che una delle isole più belle del Mediterraneo abbia un calo di turisti quando potrebbe convogliare la clientela dei concorrenti Egitto, Tunisia, Turchia colpiti da guerre e attentati. È stato così per decenni e la ricetta era sempre una: debito. Adesso non funziona più sia per i vincoli finanziari che derivano dall’appartenenza all’eurozona sia soprattutto per la scarsa competitività del Paese che fatica a tenere il passo della crescita. Ma chi ha il coraggio di dire le cose come stanno? Per far fronte al peso degli interessi calcolati, mediamente e in tempi non burrascosi, al 3% del pil occorrerebbe un avanzo di bilancio, al netto degli oneri per il debito, dall’attuale 1,7% al 3%.Sono numeri che si traducono in riduzioni di spesa parassitaria ma che tradotta nella realtà di chi vive di sussidi e di pensioni diventa un dramma umano oltre che sociale. Ecco il vero problema di un modello di sviluppo costruito sull’assistenzialismo.

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