Quel sarto prototipo
dell’uomo moderno

L’originale è esposto, con allestimento molto elegante, al primo piano della Carrara. Ma il suo volto spunta ovunque in città. Così tutti hanno imparato a conoscere «il Sarto», protagonista di questo straordinario capolavoro di Giovan Battista Moroni. Anzi, più che a conoscere, a familiarizzare con lui. Infatti c’è un qualcosa in questo personaggio che spiazza.

Proviamo a chiudere gli occhi e ad immaginarlo senza quella «mise» che lo colloca in una stagione lontana del tempo; senza il giuppone con collo e polsi a «lattuga» (si chiama così quell’arricciatura) e senza le «braghesse» color vinaccia. Proviamo a guardarlo isolando solo il suo volto. Chi direbbe di avere di fronte a un uomo vissuto quasi 500 anni fa? Scendiamo poi un po’ con lo sguardo: gli vediamo tra le mani le grandi forbici usate per tagliare le «pannelle» di lana da vendere ai suoi clienti. È uno strumento di lavoro, messo in bella vista e appoggiato sul bancone. Il nostro «Sarto» (in realtà si tratterebbe di un mercante di stoffe) non ha chiesto a Moroni di farsi ritrarre in una posa e soprattutto in un contesto un po’ solenne, in modo da passare alla memoria dei posteri in modo più nobile e «alto». No, ha voluto posare nel suo laboratorio, senza ammennicoli e senza fronzoli. Un muro grigio di sfondo, molto sobrio, da sembrare quasi scabro. Un piano d’appoggio e nient’altro. Viene quasi il sospetto che il nostro Sarto non avesse tempo da perdere, neanche quello necessario per andare nello studio del pittore e mettersi in posa per il tempo necessario. «Se il lavoro chiama, il lavoro comanda…» sembra di leggergli in volto. Anche lo sguardo pensieroso è quello di chi non riesce a staccare neanche mentalmente dall’agenda quotidiana, dagli impegni, dalle grane da risolvere. O dai business da non farsi scappare.

Eccoci al punto: il sarto di Moroni sembra tanto uno di noi. Sembra davvero il precursore del piccolo imprenditore lombardo, di un uomo che si identifica nel proprio lavoro. Che ha nell’impresa una sua seconda pelle. Poco importa se non c’è spazio per effetti speciali, per tocchi di eleganza, o per qualche cedimento alla vanità. Contano le cose da fare, i traguardi da raggiungere, i conti da far tornare. E perché no, i guadagni da incassare. Più che un precursore, in realtà è un vero prototipo. Nel senso che (e qui sta la grandezza di Moroni) fissa un tipo umano nel suo nascere, nel suo apparire sulla scena sociale del mondo. È il tipo umano che mette le mani nella realtà, anziché tenersene nobilmente alla larga. È un uomo per il quale il tempo è una risorsa preziosa; e che guarda con una punta di compatimento a quei nobili, a lui contemporanei, che s’illudevano, facendosi fare i ritratti, di poter fermare e cristallizzare il tempo.

Il Sarto è il prototipo dell’uomo attivo, che non disgiunge mai il fare dal progettare. Le sue mani sono «mani che pensano», secondo la definizione data da Richard Sennett nel suo straordinario libro «L’Uomo artigiano», in cui tesse l’elogio delle botteghe italiane come modelli di modernità. Se, fantasticando, vogliamo immaginare una richiesta che il nostro Sarto potrebbe aver avanzato a Moroni, è quella di dare adeguato spazio alle mani, che naturalmente sono solo in pausa, ma ciascuna già pronta a riprendere il proprio compito, a rimettersi all’opera.

Infine, il Sarto non è certo un uomo a una dimensione. Nel suo sguardo cogliamo infatti anche una punta di malinconia. Il suo è uno sguardo penetrante: gli si riconosce subito una psicologia molto moderna, in cui le certezze del fare devono tirare i conti anche con le inquietudini dell’anima. Non è uno tranquillo. Non è uno arrivato. Per questo lo sentiamo uno di noi.

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