Renzi e il deficit
proposta rischiosa

In un clima che comincia a intorbidirsi per le «prove» degli effetti speciali pre-campagna elettorale, Matteo Renzi ha recentemente lanciato una vera e propria sfida alla Ue accusata, con le sue regole di bilancio, di porre un freno alla crescita. Primo termine di questa sfida, la richiesta di eliminare dai Trattati il «Fiscal compact», che vincola al rispetto di una serie di regole per il contenimento del disavanzo pubblico, la riduzione del debito e il conseguimento del pareggio di bilancio.

Il secondo è rappresentato da un accordo con il quale l’Italia s’impegnerebbe verso la Ue a ridurre il rapporto debito/Pil tramite una crescita più forte e un’operazione sul patrimonio che la Cassa Depositi e Prestiti e il ministro del Tesoro avrebbero già studiato. Tutto ciò, in cambio del via libera, almeno per cinque anni, ad un deficit al 2,9%. Secondo Renzi, ciò permetterebbe di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi 5 anni, utile a ridurre la pressione fiscale e sostenere la crescita. In merito, il ministro del Tesoro Padoan ha già fatto sapere che il governo Gentiloni non intende seguire questa linea.Come c’era da aspettarsi, poi, non sono mancate le reazioni contrarie alla proposta Renzi da parte della Ue per il tramite di Pierre Moscovici, Commissario responsabile del controllo sui bilanci nazionali. Questi ha ricordato che «l’Italia non può lamentarsi, essendo il solo Paese che ha beneficiato di tutta la flessibilità del Patto». Ha poi aggiunto come sia interesse dell’Italia «continuare a ridurre il deficit per ridurre il debito, che pesa sulle future generazioni».

La proposta di Renzi, nei termini in cui è stata formulata, nasconde qualche rischio. Date le vigenti regole europee, la presenza di un debito così elevato, che ha raggiunto i 2.300 miliardi di euro, riduce o addirittura annulla la «capacità fiscale», cioè, i margini per effettuare una vera politica espansiva in deficit quando l’economia entra in recessione, così come accaduto nel 2009 e nel triennio 2011-2013. Inoltre, se la politica monetaria europea divenisse più restrittiva, con la fine del Quantitative Easing, salirebbe enormemente il costo del debito per il rialzo dei tassi d’interesse. Rimane anche elevato il rischio tra una possibile crisi del debito e la situazione di bilancio delle banche, nei cui attivi risulta ancora presente una gran quantità di titoli del debito pubblico.Non va, peraltro, dimenticato che ci troviamo di fronte ad un processo europeo di unificazione bancaria ancora zoppo, perché mancante di una vera comune assicurazione dei depositi. Tutte queste considerazioni – a cui si aggiungono la forte esposizione alla volatilità dei mercati e il freno alla crescita che ne deriva – non ci consentono di posticipare ulteriormente la riduzione del debito. Di questo avviso è anche il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il quale ha recentemente affermato che «per ridurre il debito e ricondurlo sotto il 100% del Pil in dieci anni, non sono necessari drastici tagli alla spesa e fare una manovra di ampia entità ogni anno. Basta mantenere un avanzo primario del 4% o, comunque, più elevato dell’1,5% attuale».

Non è questo un impegno da poco, ma può essere certamente conseguito con interventi coordinati che siano in grado contemporaneamente di realizzare: un allargamento della base imponibile, attraverso un’efficace lotta all’evasione (87 miliardi di euro l’anno per Unimpresa), anche limitando fortemente l’uso del contante; una spending review incisiva indirizzata soprattutto a tagliare la spesa pubblica improduttiva a livello centrale e periferico; la vendita di beni demaniali con un’operazione sul patrimonio di cui si starebbe già occupando il Tesoro; un ulteriore smobilizzo del capitale di grandi enti pubblici, la contemporanea ripresa delle privatizzazioni e la drastica riduzione delle oltre diecimila aziende locali, partecipate da Regioni e Comuni. Va ricordato che grazie proprio ad un intenso programma di smobilizzo del capitale di grandi enti pubblici (Iri, Eni, Efim ed altri) e le privatizzazione di grandi banche, il rapporto Debito/Pil è sceso, in dieci anni, dal 121,84% del 1994 al 103,90% del 2004, per poi salire anno dopo anno fino all’attuale 133%. La messa a fuoco delle azioni opportune da porre in atto per ridurre il debito non parrebbe dunque di così complessa analisi. Il problema, semmai, è che guardando al dibattito politico odierno appare difficile trovare una forza che assuma questo impegno, rinunciando a temi che colpiscono maggiormente la sensibilità di superficie dell’opinione pubblica.

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