Riprende il vento
contrario all’impresa

La maggior parte degli economisti e sociologi che animano il dibattito internazionale, sono concordi nel ritenere che la parola impresa evochi il concetto di lavoro e socialità, così come la parola imprenditore richiami il binomio produzione-occupazione. Non mancano tuttavia posizioni fuori dal coro, a volte anche autorevoli, altre pretestuose, che soffiano nuovi venti populisti contro tali due figure da sempre centriche - impresa e imprenditore - nello sviluppo socioeconomico occidentale. È accaduto,

di recente, in occasione del varo del Decreto dignità, che oltre ad alcune misure preordinate a contenere la precarietà nel lavoro giovanile, prevede forti penalizzazioni per le imprese che delocalizzano, nel caso abbiano goduto di contributi statali. Il provvedimento non appare particolarmente incisivo, ma l’enfasi con la quale è stato presentato dal vice presedente del Consiglio Di Maio ha diffuso la convinzione che fosse ispirato da una volontà punitiva nei confronti delle imprese. Ciò ha alimentato una vivace protesta da parte del presidente di Confindustria Boccia, che ha reso necessario un intervento correttivo del presidente del Consiglio Conte. Ha enormemente colpito, però, come alcuni Parlamentari vicini al governo, mostrando un’evidente acredine anti industriale, abbiano approfittato dell’occasione per rilanciare la minaccia in interviste e dibattiti televisivi: «Ora pagheranno le imprese e non i lavoratori». Tutto ciò, come se l’impresa fossa tutt’altra cosa rispetto alla comunità di operai e dipendenti che vi lavorano e come se l’imprenditore fosse principalmente deputato allo sfruttamento di persone.

La storia è prodiga di figure imprenditoriali che rientrano nell’alveo del capitalismo etico e umanistico e che attestano la funzione sociale del capitano d’impresa. Ciò non toglie che anche tra chi mette assieme i fattori della produzione si possano nascondere gli stessi difetti, gli stessi limiti, gli stessi peccati che caratterizzano altre professioni. Non ha alcun senso, però, partire da situazioni marginali per colpire nel mucchio e condannare l’intero mondo imprenditoriale. Senza la rivoluzione industriale il mondo vivrebbe in una condizione di indigenza assoluta; la stessa vita media di ogni essere umano corrisponderebbe alla metà di quella attuale. È merito del sistema-impresa se sono stati possibili progressi insperati in campo economico, scientifico e sanitario. Purtroppo, i traguardi e i progressi che hanno interessato l’umanità, vengono spesso taciuti o sottovalutati, seguendo una moda assai diffusa, quella di soffermarsi prevalentemente sugli aspetti negativi e scellerati prodotti dalla quotidianità. Accade, così, che il progresso dell’umanità sia considerato da alcuni come un evento naturale e non anche la conseguenza dei benefici prodotti dal diffondersi in tutto il mondo di valide iniziative imprenditoriali.

Questa posizione ha avuto ampio consenso negli anni scorsi nell’ambito del M5S, accompagnata dalla diffusione di una dura critica sociale, qualificabile come antindustriale-antiprogressista e riconducibile a questi aspetti principali: un rifiuto categorico dell’idea di progresso; l’esaltazione della decrescita felice; un giudizio critico rispetto alle promesse della modernità; una messa in discussione assoluta dei benefici della tecnologia. C’è dunque da augurarsi che l’esperienza di governo - con la necessità di trovare soluzioni efficaci ai tanti problemi sociali e occupazionali presenti in vaste aree del Paese - esca dal perimetro opportunistico del «gioco all’equivoco» e faccia la giusta chiarezza sul tema. Tutto è criticabile e migliorabile, ma è altrettanto urgente ed importante partire da un condiviso concetto universale: non esistono altri sistemi in grado di generare ricchezza diffusa e posti di lavoro al di fuori di quello imprenditoriale.

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