Trump ci ridà i jihadisti
Rompicapo per l’Europa

Donald Trump mette quasi ogni giorno pressione all’Europa sulle questioni della difesa e della sicurezza. La conferenza di Varsavia sul Medio Oriente, oltre a consacrare l’alleanza tra Israele e Arabia Saudita, ha avuto uno scopo ben preciso: far capire ai Paesi Ue, e soprattutto a Francia e Germania, che gli Usa non tollereranno alcun distinguo sull’Iran e sulla campagna di destabilizzazione che è stata varata contro il regime degli ayatollah. Non a caso la Casa Bianca ha voluto che i lavori si svolgessero

in Europa: per far capire a tutti che dentro l’Ue c’è un nocciolo duro di Paesi filo-americani (per prima la Polonia, che si è offerta di pagare pur di avere una base Usa sul proprio territorio) che, in caso di necessità, faranno quanto sarà loro richiesto.

Adesso arriva da Trump il monito sugli 800 jihadisti con passaporto europeo che tra Siria e Iraq sono stati catturati dagli americani e dai loro alleati arabi e curdi e che Francia, Germania, Regno Unito e altri Paesi europei devono riprendersi e processare. In caso contrario, ammonisce il presidente, gli Usa saranno costretti a liberarli. La minaccia è implicita ma preoccupante: i miliziani potrebbero tornare nei loro Paesi e organizzare lì nuovi attentati.

Della questione si era parlato già a Washington, all’inizio del mese, nella riunione dei ministri degli Esteri e dei capi di Governo dei 79 Paesi che partecipano alla coalizione anti-Isis a suo tempo organizzata da Obama. E lì gli americani avevano chiesto agli europei di rimpatriare e processare i jihadisti detenuti nelle carceri curde, che hanno peraltro al seguito circa 2 mila tra mogli e figli. Sullo sfondo, il mutamento di scenario generato dal ritiro delle truppe Usa dalla Siria, deciso da Trump.

Per gli americani, inventori di quella mostruosità giudiziaria chiamata Guantanamo, il problema è relativo. Per gli europei le cose sono invece più complicate. I jihadisti, infatti, sono tenuti prigionieri nel Rojava, l’entità curda nel Nord della Siria che però nessuno riconosce come Stato autonomo. Un’estradizione è quindi impossibile, perché la procedura può avvenire solo da Stato a Stato. Per fare un esempio. La Francia vanta il più alto numero di concittadini tra i jihadisti prigionieri: 130, secondo cifre date dal ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. Se li riportasse indietro, gli avvocati dei miliziani farebbero leva sulle irregolarità procedurali, che si riflettono anche nel diritto internazionale, per minare i processi. In più, bisogna tener conto anche dei sistemi penali nazionali. Sempre in Francia, stanno uscendo di prigione (15 quest’anno, una ventina l’anno prossimo) individui condannati per terrorismo ma a pene, come si capisce, assai lievi. Questo perché solo nel 2016, dopo le stragi parigine di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, la Francia si è dotata di una legge che stabilisce che chi ha raggiunto gruppi come l’Isis o Al Nusra non poteva ignorare di entrare in una milizia di terroristi. E quelli che sono partiti prima del 2016? Potevano invece ignorare quel che facevano, con la guerra in Siria in corso già da quattro anni?

Non a caso è stata accarezzata l’ipotesi di costruire una nuova Guantanamo in un Paese vicino e alleato, dal quale poi estradare i jihadisti. Ma Turchia e Iraq, i primi indiziati, si sono tirati indietro. La verità è che i jihadisti, partiti dall’Europa per andare ad ammazzare siriani e iracheni, dovrebbero essere in prima istanza giudicati da tribunali in Siria e in Iraq. Ma per Francia, Germania, Regno Unito e gli altri sarebbe un’umiliazione troppo pesante. Per non aggiungere che tra quei prigionieri ci può essere chi ha cose da raccontare sul Califfato, sul finanziamento dei terroristi, sulle eventuali complicità. E i servizi segreti occidentali vogliono essere i primi a scavare in quella miniera.

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