Ultima sfida
per Erdogan

È l’ultima sfida, a se stesso e alla Turchia. E segna il destino di un Paese. Recep Tayyip Erdogan oggi si gioca tutto alle elezioni politiche e presidenziali che ha voluto anticipare di oltre un anno per consacrare definitivamente il neo-ottomanesimo turco. Non c’è partita: o le stelle o la polvere. O la vittoria e una concentrazione senza uguali al mondo di poteri nelle sue mani, o la sconfitta del sultano e la fine del «tanzimat», le riforme che ha voluto con tenacia e con una buona dose di arroganza per riportare la Turchia ai fasti passati della Sublime Porta.

Quello di oggi è il voto più decisivo nella storia della Repubblica turca, da due anni in perenne stato di emergenza, dopo il golpe misterioso del luglio 2016, tra zone d’ombre perfette per avviare la più ampia repressione contro stampa e magistratura mai vista dalle parti di Ankara e per sbarazzarsi di ogni opposizione alla gestione autoritaria del suo potere. I turchi devono eleggere sia il Parlamento sia il presidente, con le regole che Erdogan ha cambiato l’anno scorso, certificate dai risultati di un referendum popolare che tuttavia non ha avuto i numeri che il sultano si aspettava con quasi la metà della popolazione contraria. Il disegno è complesso e audace, ma l’anticipo delle consultazione prevista per la fine del 2019, maschera una debolezza. La sua «presidenza esecutiva», in realtà un governo dell’emergenza perenne nato da un golpe che Erdogan ha definito «una benedizione di Dio», alla vigilia del voto non appare forte come il sultano tende a far credere. Il cambiamento delle regole con un Parlamento con 50 deputati in più, l’aumento dell’età da 18 a 25 anni per essere eletti, la durata della legislatura portata a cinque anni per farla coincidere con la Presidenza, la possibilità per le coalizioni per aggirare la soglia del 10 per cento che premia i partiti minori, sono state misure che hanno ricompattato l’opposizione, sempre divisa finora in quel gioco di specchi che è il dibattito politico in Turchia.

L’Akp, il partito personale del presidente, si è indebolito in un Paese che ha sospeso diritti politici e civili, proceduto ad ampie e inquietanti epurazioni nell’esercito e nelle università, chiuso sindacati, associazioni, fondazioni, ospedali privati, enti di assistenza. Sono spariti 140 giornali, i beni sequestrati, con 2.400 giornalisti disoccupati e 500 sotto processo di cui 140 in carcere. A ciò vanno aggiunte le difficoltà dell’economia turca dopo i risultati strabilianti della crescita passata, fonte di consenso e di voti per il partito del presidente. La vera ragione della corsa alle urne di Erdogan sta forse proprio nel timore di un capitombolo economico ancor più drammatico i cui segnali si sono manifestati già in campagna elettorale con un deprezzamento della lira turca sul dollaro ( - 5 per cento in un giorno solo) che ha costretto la Banca centrale ad aumentare i tassi di interesse. L’economia turca negli anni passati non aveva risentito dalla crisi, ma ora la cuccagna è finita, non solo per le questioni interne, ma anche per la delicata situazione geopolitica nella quale si è infilata Ankara in seguito alla crisi siriana.

Così è difficile, ma non impossibile che le opposizioni riescano ad ottenere un risultato nonostante il loro leader più accreditato Salehattin Demirtas, avvocato dei diritti umani, sia in carcere senza prove accusato di terrorismo filo-curdo e abbia potuto tenere solo due comizi televisivi di 10 minuti registrati dalla tivù turca. Ma Demirtas è un personaggio carismatico ed Erdogan ne ha paura, insieme all’altro candidato del partito repubblicano Muharad Ince. Sullo sfondo, ma non tanto, gioca un ruolo anche l’Europa e la faccenda dei migranti che la Turchia si tiene in cambio di un bel gruzzolo di quattrini di Bruxelles. Se il sultano decidesse di riaprire le frontiere per l’Europa sarebbe un disastro. L’unica crepa è rappresentata dai giri di valzer di Erdogan con lo zar di Mosca, che minano la sicurezza della Nato, con Trump che blocca la fornitura di F35 ad Ankara perché Erdogan è pronto ad accogliere i micidiali S400 russi indispensabili a Putin nello scacchiere mediorientale. L’Europa continua a concepire se stessa «come fossimo ancora ai tempi del Congresso di Vienna», osserva Fatila Mat corrispondente dell’ «Osservatorio Balcani, Caucaso e Transeuropa» e responsabile del «Resource centre on Media freedom»: «Diversi Stati membri dell’Ue da una parte criticano le violazioni dei diritti umani in Turchia, dall’altra siglano accordi commerciali con il governo turco senza porsi troppi interrogativi morali».

© RIPRODUZIONE RISERVATA