Un danno le giravolte
in politica estera

La politica estera è una cosa seria. Lasciarla in mano a sprovveduti produce danni al Paese. Se n’è accorto il nostro presidente del Consiglio al Parlamento europeo. Il capogruppo liberale Verhofstadt ha potuto gridargli in faccia di essere un burattino e nessuno ha battuto ciglio. Anche chi non condivideva il giudizio. Ecco il prezzo che si paga quando il governo che si rappresenta diventa indifendibile anche per chi lo vorrebbe difendere. Conte era stato apprezzato a Bruxelles nella trattativa di bilancio ma quando si rompe l’unanimità di 27 Paesi nella condanna di Maduro in Venezuela è ovvio che si semina tempesta. A che pro? Son bastati pochi giorni e la posizione è cambiata. La Santa Sede rende nota la lettera inviata al dittatore venezuelano e subito a Roma capiscono che la rotta tracciata conduce sugli scogli. Così si ripiega sulla richiesta di elezioni libere ma senza condannare apertamente il dittatore.

È valsa la pena litigare con tutti i Paesi della Ue per poi ribadire nella sostanza quello che l’Unione europea avrebbe dichiarato unanimemente senza il veto dell’Italia? Lo stesso scenario si ripete con i gilet gialli. Dopo averli incontrati in Francia e causato il ritiro dell’ambasciatore francese da palazzo Farnese, Di Maio adesso scarica Chalencon e compagnia e non li vuole nell’alleanza alle elezioni europee. Motivo? Sono violenti. Ma non lo sapeva anche prima? Perché ha causato un incidente diplomatico senza ricavarne nulla per il Paese? Adesso l’ambasciatore francese è rientrato a Roma solo perché il presidente Mattarella ha fatto quello che un governo responsabile dovrebbe fare: ha mediato.

Tutto ciò sembra non incidere sugli umori dell’elettorato italiano. Le rilevazioni demoscopiche vedono i partiti di governo al 60% dei consensi. È il comune sentire di chi ha voluto disarcionare la vecchia classe dirigente e non può permettersi di delegittimare quella nuova. Non sarà la politica estera a mettere in crisi il governo. Ma attenti, la fiducia in politica non è un assegno in bianco. La disoccupazione è ancora là. Peggio: aumenta l’emigrazione di forza lavoro giovane qualificata e con titolo di studio. Se la produzione continua ad arretrare, come in questi mesi, non vi è ritorno. Se la recessione da tecnica diventa stabile si ha un bel dare la colpa ai governi precedenti, prima o poi il conto arriva. Prendere i francesi o gli eurocrati e metterli sul banco degli imputati può funzionare ma alla lunga anche il frequentatore del bar sport se ne accorge.

Sulla politica economica italiana si potrebbe lanciare un annuncio: cercasi valente economista di fama internazionale in grado di approvare le ricette economiche del governo. Non è vero che le riserve auree della Banca d’Italia sono degli italiani, sono dello Stato italiano. Se in Italia lo Stato è figlio di nessuno, non lo è certamente per il creditore che ha investito nel debito pubblico italiano. Seicento miliardi di euro collocati all’estero che scottano se non si riprende la strada della crescita. I governanti sono assillati dall’«ora e subito» dei governati. Anche l’esecutivo Renzi ne era stato contagiato. Il vero interesse nazionale sta nel dire che non vi sono scorciatoie e questo sicuramente non piace alla platea. L’Italia in Europa è isolata. Tutti aspettano gli eventi. La Corte dei Conti avvisa: infrastrutture inadeguate in Italia. Gli altri Stati migliorano le loro dotazioni ma a Roma tutto si è fermato. L’unica speranza è che il mondo produttivo, lavoratori e aziende facciano valere il loro peso e impongano la ricetta che ogni imprenditore conosce: tacere e rimboccarsi le maniche.

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