Un tempo sospeso, bisognoso di speranza

Il dolore di Bergamo nel cuore del mondo, il dolore del mondo nel cuore di Bergamo. Due anni dopo l’immagine che ha purtroppo reso immortale quella lunga e terribile scia di morte trasportata dai carri dell’esercito verso la Storia, dolore e speranza s’intrecciano in un destino che sfortunatamente attende ancora di essere compiuto. Chiunque di noi si sarebbe aspettato di vivere un presente diverso, una sorta di «dopoguerra» segnato da una vigorosa rinascita non soltanto economica, ma anche e soprattutto sociale, capace di mettere a frutto e valorizzare quel gigantesco scatto di umana solidarietà di cui Bergamo è stata indiscussa protagonista, diventando un esempio da seguire.

Oggi, invece, ci troviamo ad abitare un «tempo sospeso», tra l’incubo del Covid non ancora svanito (e che anzi sembra rialzare la testa sul fronte dei contagi) e l’angoscia opprimente di una guerra alle porte di casa, sull’orlo del baratro di un conflitto atomico che non vedrebbe alcun vincitore, ma solo sconfitti: il genere umano e il pianeta che lo ospita. Capace di slanci di fratellanza che illuminano la nera solitudine del mondo, capace di progredire singolarmente e collettivamente nei gradi di una conoscenza sempre più raffinata e tecnologicamente avanzata, al fondo però l’umanità dell’uomo resta fragile e malata, intrisa di un intimo egoismo che alimenta il nazionalismo più bieco e l’odio razziale, mai sopitononostante il mondo abbia già toccato con mano fin dove si è spinta la crudeltà e la ferocia dell’homo sapiens.

Non può non salire alla memoria l’urlo disperato che Salvatore Quasimodo lanciò nel 1946 in «Uomo del mio tempo»: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto, dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore». Nonostante un’evoluzione di millenni, la natura dell’uomo moderno resta la stessa dell’uomo della pietra, con gli stessi istinti e le stesse pulsioni, la stessa violenza e la stessa voglia di distruggere l’altro, mettendo al bando amore e solidarietà, impoverendo sé stesso e la propria natura.

E se è vero che non c’è altra via della notte per arrivare all’alba, se è vero che l’ora più buia è quella che precede il sorgere del sole, resta allora la speranza che «lì dove cresce il pericolo, cresce ciò che salva», come scrisse nei primi anni dell’800 uno dei più grandi poeti europei, il tedesco Friedric Holderlin. È giusto, dunque, raccogliere l’invito che il nostro vescovo Francesco ha rivolto ieri ai bergamaschi da queste stesse colonne, quello di lasciarsi «plasmare dalla speranza», quello di «dare forma al tempo non lasciandosi consumare dall’inesorabile scorrere dei giorni, ma alimentandone il senso, liberandolo dalla mera produttività, riempiendolo di gratuità».

«Fare memoria per nutrire la speranza» ha ricordato ancora monsignor Beschi e oggi - Giornata nazionale per ricordare le vittime del Covid - il «fare memoria» non è soltanto un dovere, un atto dovuto, ma un bisogno, una necessità, perché finché vive il ricordo, vive anche chi, di quel ricordo, è la scintilla. La vita è adesso, certo, ma l’esperienza del vivere (che non è la stessa cosa) non lo è proprio per nulla, perché legata alla memoria del passato e alla speranza del futuro. «Sulla ferocia dell’assenza piovono petali di girasole e la solitudine non ha odore – canta Fiorella Mannoia in una canzone dedicata al padre scomparso e che tocca le corde dell’anima –. Conosco un posto dove puoi tornare, conosco un cuore dove attraccare, conosco un posto dove puoi tornare, conosco un cuore dove puoi stare». E quel cuore è il nostro, quello di ciascuno di noi, quello dove il ricordo di chi ci ha lasciato senza nemmeno avere la nostra carezza sulla soglia di questa vita troverà il terreno migliore per mettere radici profonde, che renderanno senza tempo l’albero della memoria destinato a crescere rigoglioso e i cui rami arriveranno al Cielo per toccarne la misericordia. Il nostro futuro non può che passare da qui. Non dimentichiamolo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA