Vigilanza sulle banche
I rischi per l’Italia

Vero è che le nuove norme, molto severe e restrittive, che l’organo di vigilanza della Bce vorrebbe introdurre per combattere i crediti deteriorati delle banche, sono tutte rivolte al futuro, a valere dal primo gennaio prossimo, e non riguardano la situazione in essere, ma non si può dare torto a coloro – un po’ tutto il sistema finanziario italiano, a cominciare da Bankitalia – che considerano l’idea quanto meno intempestiva. Il giro di vite proposto da Danièle Nouy, presidente del Consiglio di vigilanza, una bionda signora francese dalle apparenze soavi ma dal pugno di ferro, prevede – in autonomia rispetto a Mario Draghi - che le banche debbano coprire entro 2 anni con accantonamenti al 100% i crediti più incerti, arrivando a 7 solo per quelli più garantiti.

Buone le intenzioni, ma i crediti non sono solo di due categorie, ognuno è diverso dall’altro, quando li vuoi recuperare. Le conseguenze pratiche sono già state misurate dalle nostre banche. Solo con riferimento alle prime 10, si parla già per il 2018 di 1,4 miliardi di accantonamenti in più, che scendono un po’ negli anni successivi, ma con una diminuzione – da qui al 2024 – di almeno 9 miliardi. Pazienza per il -12% di utili aziendali (anche se i banchieri non sono popolari, ma i dividendi sì), tuttavia quei 9 miliardi sono ossigeno negato ad un sistema produttivo e familiare che ha bisogno di prestiti e può contribuire a tutto il circuito virtuoso dell’economia: investimenti sostenuti, inflazione moderata, consumi in crescita. Gli unici a guadagnarci sarebbero insomma gli istituti specializzati nel ramazzare i crediti a basso prezzo, allettando chi svende.

Avendo fatto l’esperienza choccante del «bail-in», che arrivò senza tante polemiche, pressochè ignorato, e poi fu all’origine di un crollo di valore delle banche sui mercati borsistici da cui non siamo ancora usciti del tutto, nonostante le brillanti prestazioni recenti di Piazza Affari, questa volta l’allarme è suonato molto forte e ha trovato unanimi tutti gli operatori, dalla finanza all’industria, al Governo, agli organi di vigilanza. Come al solito, in verità, l’Italia non è proprio del tutto innocente nel sostenere tesi anche giuste, perché la misura dei prestiti «lordi» troppo facili è al 12%, mentre la media Ue è al 4,5%, e dunque non possiamo pensare di trovare grandi alleanze in giro per il continente. Ma è vero anche che solo nel 2017 sono stati fatti miracoli, portando lo stock delle sofferenze nette (cioè quelle davvero difficili) al valore più basso dal 2013, 65,8 miliardi, contro un punto di partenza quasi tre volte più alto.

Insomma stiamo facendo uno sforzo straordinario, davvero impensabile a inizio anno, tanto che il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, era giunto a dire che «l’Italia stupirà il mondo». Ma per queste cose occorre un quadro un po’ più stabile, mentre il settore finanziario soffre di un vero e proprio «terremoto normativo», in continuo rinnovo europeo e nazionale. Prima lassismo, poi accanimento. Le ultime regole in materia erano della primavera scorsa, ma già ora arriva un «addendum», una aggiunta che introduce criteri che lasciano perplessi gli esperti. Non ci avventuriamo nelle questioni tecniche del contrasto tra principi contabili e indicazioni dell’addendum, ma è certamente sconcertante la scelta della durata dei crediti da svalutare che introduce non criteri razionali o comunque motivati, ma solo il criterio della durata: 2 o 7 anni. «Gli antichi li definirebbero numeri magici», ha commentato Patuelli. Ecco perché non hanno torto coloro che denunciano un atteggiamento intempestivo. Non è una cosa buona, proprio mentre sta partendo la ripresa e l’industria dimostra con una forte progressione confermata ogni trimestre che gli investimenti (e le regole 4.0 di Calenda) funzionano. In campo finanziario già dobbiamo attrezzarci per la fine dell’epoca d’oro del «quantitative easing» di Draghi, e aiutare il percorso in salita del risanamento delle banche mal gestite. Quanto a quelle in salute, superati brillantemente gli stress test di Francoforte, sarebbe auspicabile potessero dedicarsi alla loro essenziale funzione di raccolta e prestito, accompagnando con prudenza il presumibile rialzo dei tassi che fisiologicamente farà seguito all’attenuazione delle politiche espansive.

Il bello è che tutto questo avviene nei giorni stessi in cui il premio Nobel dell’Economia viene assegnato a uno studioso come Richard Thaler che ha sottolineato l’incidenza del fattore psicologico umano nell’evoluzione dei fenomeni economici. Insomma l’influenza dell’irrazionale, delle tendenze sociali, dello scarso autocontrollo del fattore umano.

Luigi Einaudi non ha mai ricevuto il Nobel, ma usava efficaci metafore zoologiche, quando descriveva il risparmiatore – figura al centro di tutto il suo pensiero – come un elefante per la memoria, un coniglio per la propensione al rischio, una lepre per la velocità di fuga al primo accenno di pericolo. È quest’ultimo il caso, ma forse la signora Nouy non aspira al Nobel.

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