Welfare, scegliere
oggi per domani

Il sistema di welfare di un Paese dice molto del suo grado di democrazia e della sua società civile. Per questo, il dibattito sulle pensioni, in un Paese che invecchia sempre di più e che quest’anno ha fatto registrare il record negativo delle nascite dall’Unità d’Italia, conquista puntualmente la ribalta politica e mediatica scaldando gli animi di tutti: operai, commercianti, artigiani, impiegati, economisti e politici si lanciano in discussioni sulle varie ipotesi di riforma che riempiono le pagine dei giornali.

E dunque: bene o male, purché se ne parli? Forse è giunto il tempo di rivedere questa prospettiva. È fondamentale calibrare ogni intervento accostandosi al tema senza approssimazioni o manicheismi: si prenda la legge Fornero, trasformata negli ultimi mesi in un confronto tra opposte tifoserie, chi a favore, chi contro.

L’intervento del governo Monti sulle pensioni era orientato esclusivamente da esigenze «di cassa», mentre avrebbe dovuto tener conto delle ripercussioni sulla vita di milioni di lavoratori. Per aggiustare le cose sono state approvate ben 8 salvaguardie a cui poi si sono aggiunti, nel 2016 e nel 2017, gli interventi per l’adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita e per la flessibilità in uscita per alcune tipologie di lavori. Limitandosi a guardare al recente passato, però, si corre il rischio di non avere una visione completa della questione. La verità è che sono molti i fattori che hanno reso il nostro sistema pensionistico quello che è oggi.

Prima della legge Fornero, altre norme hanno inciso significativamente sul sistema: la flessibilità in uscita era già stata introdotta nel 1995, eliminata poi dalla legge Maroni nel 2004, mentre l’aumento dei requisiti per la pensione di vecchiaia per le donne e la questione della speranza di vita erano stati già varati dall’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Solo tenendo a mente tutto ciò che è già stato fatto, è possibile valutare le prossime mosse, a partire dalla separazione delle misure previdenziali da quelle assistenziali, soluzione che consentirebbe di distinguere chiaramente quali spese gravano sui contributi e quali sulla fiscalità generale.

E ancora: se da una parte il ritocco delle quote per andare in pensione potrebbe portare a un miglioramento – tutto da verificare su norme scritte – dall’altra si mette a rischio il principio per cui per alcuni lavori più pericolosi e faticosi servono requisiti di pensionamento più favorevoli. Per sciogliere questi nodi serve un’attenta riflessione, magari fondata su studi più ampi, che potrebbero fornire una prospettiva più precisa anche sulla questione dell’aspettativa di vita.

Bisogna poi dare voce al vero assente nel dibattito previdenziale, ieri come oggi: i giovani. Il loro futuro pensionistico richiede decisioni urgenti e necessarie, che vadano oltre la giusta idea di rafforzare – anche attraverso forti vantaggi fiscali – la previdenza complementare. Chi entra nel mercato del lavoro tardi e con profili precari ha bisogno di certezze adesso, per sganciarsi dalla solita prospettiva del «tanto io non avrò mai la pensione» attraverso garanzie che consentano di guardare al futuro con più serenità.

Del resto è di questo che parliamo quando parliamo di pensioni e previdenza: del futuro, nostro e dei nostri figli, della nostra società, dei cittadini che vogliamo diventare. E se è vero che chi oggi lavora sulla riforma del sistema pensionistico deve valutare scelte importanti nell’immediato, è vero anche che – parafrasando Warren Buffett, un tempo l’uomo più ricco del mondo – chi ha la capacità di piantare degli alberi, lo fa pur sapendo che non necessariamente arriverà a godere della loro ombra.

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