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La bellezza della solidarietà e la fragilità portata dal virus: “Preghiera per Nembro”

Articolo. Il libro del fotografo Marco Quaranta e del giornalista di La7 Guy Chiappaventi racconta sobriamente con immagini e parole il dramma del paese della Valseriana

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(foto ©FotoQuaranta)

“Questi morti nel nostro paese spesso mi vengono in sogno, nel dormiveglia, prima di alzarmi. Se è vivo il ricordo, non si muore del tutto”. Questa frase del sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, riassume bene il senso di “Preghiera per Nembro” (Ensemble), il libro che il fotografo Marco Quaranta e il giornalista di La7 Guy Chiappaventi hanno dedicato al paese della Valseriana, fra i più colpiti a livello europeo dalla prima ondata pandemica.

Quaranta racconta attraverso le immagini; Chiappaventi con una prosa asciutta mescola pochi numeri (“il tasso di mortalità è aumentato dell’810% ed è stato dell’1,63% rispetto alla popolazione”) alle voci di tante persone che hanno vissuto il dramma, dal sindaco Cancelli al curato don Matteo Cella, passando per la farmacista, la responsabile della Croce Rossa per l’ospedale di Alzano Nadia Vallati, finita anche sul New York Times, i volontari della protezione civile e gli alpini, i giovani che reagiscono alla chiamata del curato. Ognuno con il suo punto di vista, ognuno con il suo dolore senza retorica né eroismo.

Tra questi c’è anche Filippo Carobbio, l’ex calciatore travolto dall’inchiesta di Cremona sul calcioscommesse, oggi allenatore, che ha dato una mano al centralino del comune come volontario. Lo ha raccontato prima della pandemia alla Gazzetta dello Sport: “Possono dire che non sono stato un bravo calciatore, che non sono un bravo allenatore, ma nessuno potrà mai dire che non sono una brava persona, un bravo genitore. I miei figli crescendo dovranno essere orgogliosi di me per quello che ho fatto dopo […] Secondo me è giusto che a chi sbaglia, e ha pagato, sia concessa una seconda possibilità per dimostrare di essere migliorato”.

C’è uno scatto che racconta efficacemente cosa è successo a Nembro, in Valseriana e anche a Bergamo: Quaranta ha la capacità di dire cose fondamentali con un’immagine apparentemente insignificante, in realtà veritativa, che emerge nel suo significato lentamente. C’è una strada, un muro di pietre a vista, una persona che passa, visibile solo di schiena, e tre di quelle bacheche a cui si appendono i manifesti pubblicitari: in una ci sono due poster di uno spettacolo de I Legnanesi che avrebbe dovuto tenersi al Creberg Teatro dal 27 marzo al 5 aprile e intorno, su tutte e tre le bacheche, ci sono 15 annunci funebri, tanto che i poster de I Legnanesi pare stiano per essere “sommersi”. È una fotografia che racconta come la quotidianità sia stata travolta dalla tempesta del covid-19; non è l’unica, gli scatti di Quaranta raccontano le persone, le mani, i gesti. Viene in mente la canzone di De Gregori: “La storia siamo noi, / siamo noi queste onde nel mare, / questo rumore che rompe il silenzio, / questo silenzio così duro da raccontare”.

“Preghiera per Nembro” ha forse un titolo fuorviante, ma non sbagliato. Chi ha fede prega, ma tutti ricordano, secondo una religione della memoria che libri e documentari stanno alimentando, intanto che l’inchiesta va avanti, e speriamo che insieme alla memoria arrivi anche la giustizia. Che non riporta in vita i morti, ma può dare una mano ai vivi a restare tali. Così questa preghiera è una preghiera laica per tutti, credenti e non, fatta di immagini (tante, soprattutto in un bel bianco e nero) e parole (poche ma fondamentali).

Don Matteo Cella, il sacerdote sempre vestito sportivo, con le scarpe da ginnastica, dice una cosa sacrosanta: di fronte a una catastrofe come questa può capitare di perdere, anche solo per un attimo, la fede: “Non ho mai dubitato della mia fede. No, questo no. Però, un morto dopo l’altro, un funerale dopo l’altro (all’inizio del dramma a Nembro i funerali si celebravano ancora, ndr), mi è capitato di pensare: ‘Adesso basta’. Basta morire. Non so se ad altri sia successo di perdere la fede per qualche momento. Penso ad esempio alla moglie e alle tre figlie di un padre di famiglia, un uomo di 52 anni, che ha aspettato l’ambulanza per sei o sette ore con la febbre e l’affanno ed è morto in casa, soffocato dal virus. Io lo capisco se la fede ha vacillato qualche volta in casi come questo”.

Tuttavia Nembro è un paese che ha una componete sociale e culturale molto forte. Il Modernissimo, dove durante il primo lockdownGianluigi Trovesi, Stefano Montanari e Gianni Bergamelli hanno reso un breve ma intenso omaggio alle vittime, ad ognuna una gerbera (nel libro si trovano delle foto anche di questo). La splendida piazza di fronte, racchiusa fra il teatro e il municipio, dove avvengono vari eventi all’aperto. La Biblioteca-Centro culturale, che prima della pandemia organizzava 150 eventi all’anno. Lo Zuccarello, meta estiva dei nembresi e non solo. L’Oratorio con il cinema-teatro San Filippo Neri, e poi la fitta rete di volontariato che vitalizza il paese tutto l’anno. Anche per questo don Matteo può dire: “Quello che è successo ha provocato un risveglio, la voglia di ascoltare. Ci siamo dovuti rimettere in gioco e abbiamo capito che comunque un domani. Abbiamo cominciato a cercarci, a rivedere le nostre relazioni”. C’era già un terreno ben seminato, che di fronte alla morte ha provato a rifiorire.

Nembro, come tanti altri paesi del nostro territorio, è una comunità. Forte e pronta a reagire alla pandemia. Ma questo accade perché prima del virus all’individualismo del contemporaneo si è contrapposta tanta cultura e tante iniziative sociali, in osmosi fra comunità credente e laica. Un qualcosa che con il covid-19 è diventato un incrocio di bellezza e fragilità come in uno scatto che ritrae un campo pieno di fiori di tarassàco (i “soffioni” che rilasciano nel vento le loro piccole parti bianche). La bellezza della solidarietà di fronte alla fragilità portata dal virus. Anche questo è stata la pandemia.

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