Franza o Spagna

«Franza o Spagna, purché se magna». Il formidabile proverbio attribuito al Guicciardini, che sintetizza l’indole incline al vassallaggio dell’italica stirpe, improvvisamente non vale più. Pur con tutta la nostra capacità di autoflagellazione, in questa fase ascendente del 2016 guardiamo col binocolo i due Paesi di riferimento e scopriamo che stanno peggio di noi.

La Francia ha un premier ai minimi storici di credibilità, tagliato fuori dalle rotte della diplomazia internazionale, prono ad Angela Merkel e capace di far inviperire persino i falchi americani per essere andato a fare affari con l’Egitto (1,1 miliardi di forniture belliche) proprio mentre l’Italia richiamava l’ambasciatore dal Cairo per la vicenda Regeni. In casa sua, Hollande non riesce a chiudere la riforma del lavoro. E la proposta di un Jobs act leggero viene bruciata in piazza dalla gauche al camémbert col mito del Café Flore e del Sessantotto.

In Spagna, semplicemente, da quattro mesi non c’è il governo. E più passa il tempo, meno sembra praticabile la strada di Podemos, il movimento populista-beat che doveva sbaragliare i partiti tradizionali, ma è arrivato terzo e ha sbagliato parecchie mosse nei difficili negoziati per formare il nuovo esecutivo con i socialisti. Il potere logora, così il partito di Pablo Iglesias ha cominciato a sfaldarsi in liti interne ed ora cala vistosamente nei sondaggi. Ciò accade anche perché, secondo due inchieste in corso, i duri e puri di Podemos sarebbero stati finanziati con sette milioni di euro nientemeno che dal Venezuela e dall’Iran. Complotti? Le indagini chiariranno. Nel frattempo Podemos diventa Perdemos. E i nostri due storici cugini d’Europa si accorgono di una elementare verità: in politica dire «no» a prescindere non è mai una buona soluzione.

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