L’affaire Penati

Colpo di scena. «Ritratto tutto, gli interrogatori in manette sono stati frutto di una serie di angosciosi condizionamenti». Qualche volta in Tribunale accade, ma in questo caso si tratta di una marcia indietro clamorosa.

Perché a farla - nell’aula di giustizia di Monza durante il processo- è Renato Sarno, architetto, principale accusatore di Filippo Penati sul cosiddetto «sistema Sesto» di tangenti, costato all’ex presidente della Provincia di Milano (nonché braccio destro di Bersani), semplicemente la carriera politica. Come si suol dire, gelo in aula, con Sarno che davanti al giudice continua: «Ho subìto pressioni di tutti i tipi, mi è stato chiaro che se non avessi detto qualcosa su Penati non sarei uscito da lì».

Il processo continua e ci sarà modo di approfondire la vicenda per capire se Sarno mentiva allora o mente ora. Ma se così non fosse, scoppierebbe come una bolla di sapone uno degli scandali politici più clamorosi degli ultimi anni, che ha occupato pagine di giornali, trasmissioni televisive, chilometri di post e di tweet indignati contro il declino triste, solitario y final della politica italiana. Nel computer di Sarno i carabinieri avevano trovato le prove del passaggio di denaro per finanziare Penati. Ma lui spiega (senza manette) che si trattava di denaro ricevuto legalmente da imprenditori amici.

C’è da rimanere esterrefatti. Da oggi il processo a Penati diventa anche un processo all’inchiesta. Un duro colpo per il giustizialismo militante e un monito anche per noi giornalisti, sempre pronti col pollice verso «a prescindere».

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