I segreti della cornamusa orobica
salvata in extremis dall’estinzione

di Ugo Bacci

Quella del baghèt, la cornamusa bergamasca, rischiava di diventare una storia dimenticata. Il soffio magico di quello strumento antico stava per finire nel dimenticatoio, evocato soltanto dall’immagine di qualche dipinto silente.

Quella del baghèt, la cornamusa bergamasca, rischiava di diventare una storia dimenticata. Il soffio magico di quello strumento antico stava per finire nel dimenticatoio, evocato soltanto dall’immagine di qualche dipinto silente. Attorno al baghét si era come creato un mistero, una nebbia del tempo, che il ricercatore, musicista e liutaio Valter Biella ha faticosamente diradato. Grazie a lui oggi il baghèt è tornato a vivere, ma soprattutto ha ritrovato le tracce di una collocazione storica che tanti altri studiosi, Roberto Leidi in testa, avevano appena accennato negli anni Settanta.

Quanto a cornamuse la nostra provincia vanta qualche primato e una storia invidiabile. Una storia che il Biella ha ricostruito in seno al sua vasto lavoro di documentazione della tradizione musicale bergamasca. «Dell’esistenza della cornamusa in provincia di Bergamo si sapeva qualcosa attraverso i quadri e quello che scriveva il Tiraboschi sul vocabolario. Lui ne dà una descrizione. Non c’era più lo strumento. Alcuni etnomusicologi, tra cui Leidi, alla fine degli anni Settanta cominciano ad occuparsi di strumenti musicali, confermano l’esistenza della cornamusa, ma non sanno dire dove si trova, faticano a individuarne la collocazione. Così, forte dell’esperienza di ricerca che avevo già iniziato a condurre sul territorio, sono andato a indagare. Ho seguito il filo delle ricerche fatte e sono finito in media Val Seriana, in Val Gandino, e con un po’ di fortuna, un po’ di intuito, ho ritrovato i sette strumenti rimasti».

Per Valter Biella il baghèt diventa un piccolo rompicapo, da inserire nel quadro ampio della sua ricerca nel cuore delle nostre tradizioni. Tutto inizia con l’attività di un gruppo seminale, il Popolario. «Il gruppo ha lavorato alacremente per tre o quattro anni. Ivo Lizzola, che oggi è docente di pedagogia sociale in università, tirava le fila della ricerca. Lui era nel gruppo de Gli Zanni, poi ne uscì ed il Popolario nacque con l’idea di dare voce al mondo dei vinti, degli ultimi. Alcune cornamuse hanno una tradizione vivissima, soprattutto in Sud Italia, altre, come il baghèt, erano sparite nel nulla. Per quel che mi riguarda ho semplicemente chiesto al giro dei vecchi musicisti popolari se conoscevano tracce dei suonatori di cornamusa e, fortunosamente, ho trovato un filo rosso da seguire. Il primo strumento l’ho ritrovato a Gandino, poi ho conosciuto Giacomo Ruggeri, detto Fagòt, il campanaro di Casnigo e ultimo suonatore di cornamusa in Nord Italia. Lui si ricordava ancora come si suonava, aveva uno degli strumenti. E’ stato un salvataggio. Piano piano ne ho trovati altri. Uno era stato buttato nel letame, l’altro chiuso in una scatola delle scarpe dimenticata in soffitta. Una signora sapeva di averne in casa uno, ma non riusciva a trovarlo. Era appeso nell’ armadio, sotto un vecchio abito del papà. Oggi il problema della conservazione non è indifferente, anche perchè questa cultura popolare e contadina, legata al sottile filo della memoria, ha un valore enorme: l’Unesco ha stabilito, dal 2003, che tutto quanto riguarda la “cultura immateriale”, è patrimonio della umanità. Ora che Casnigo è diventato il paese del baghét, due strumenti antichi, restaurati da me, sono conservati nelle bacheche in Municipio. In tutto ci sono sette esemplari che vengono tutti dalla media Valle Seriana e dalla Val Gandino».

Anche ricostruire le dinamiche dell’uso del baghèt non è stato facile. «Gli esemplari trovati erano legati al mondo contadino. Lo strumento veniva suonato d’inverno, l’uso era legato alle stagioni di quel mondo, ai riti. La Pastorella veniva suonata alla vigilia di Natale, altri riti più arcaici, precristiani, tipo il Ballo del morto, venivano accompagnati dal suono del baghèt. Gli affreschi raccontano che il baghèt era presente già dalla metà del 1300, e legano lo strumento anche alla musica colta, perchè lo troviamo anche alla corte del Colleoni, al Castello di Malpaga. In Sant’Agostino, sul soffitto, è raffigurato sia un giullare che un angelo che stanno suonando il baghèt».

L’uso dello strumento è cambiato nel tempo. Da strumento di corte diventa strumento del popolo; poi sparisce nel nulla. «Scompare perché ha finito il suo ruolo ed è uno strumento difficile da usare. Viene scalzato a livello popolare dalla fisarmonica. La fisa compare all’inizio del Novecento e ha una diffusione industriale. Uno scarso suonatore di fisarmonica suonava comunque intonato, mentre la cornamusa andava intonata, custodita nel dovuto modo, ripreparata ogni anno. Alcuni esemplari vengono certamente da laboratori dove si costruivano antichi strumenti musicali, altri sono stati integrati dagli stessi utilizzatori. I suonatori si passavano la cornamusa da padre in figlio. Se li prestavano da stalla a stalla. I pezzi rimanevano patrimonio del casato».

«In Scozia la più vecchia delle cornamuse è datata 1690. I nostri baghèt hanno tracce decisamente più antiche.Si risale al Medioevo. Al mondo contadino è arrivato dopo ed è andato avanti per usanza».

Riscoperto lo strumento, Biella riprende a costruirne degli esemplari, la tradizione rivive, il baghèt riprende fiato. E quel suono si riallaccia alla contemporaneità. Ha nuova vita. «Ho preso a ricostruirli perché non si potevano usare gli originali, suonandoli potevano rompersi. Ho fatto delle copie usando tutti i mezzi possibili, dalla radiografia, alla fotografia, alla fotogrammetria per ricavare più dati possibili».

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