La dipendenza da videogiochi
è una malattia? Facciamo chiarezza

A inizio gennaio l’Oms ha classificato la dipendenza da videogiochi come disturbo mentale. Ma c’è davvero da preoccuparsi? Ce ne parlano Thalita Malagò di Aesvi e Stefano Triberti, ricercatore dell’Università del Sacro Cuore e uno dei massimi esperti nazionali sugli effetti psicologici del gaming.

La dipendenza dai videogiochi – la cosiddetta «gaming addiction» come si dice in gergo – è diventata ufficialmente una patologia. A inizio gennaio, infatti, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha incluso questo disturbo, definendolo «gaming disorder», nella sua lista internazionale delle patologie e dei problemi correlati, che non veniva aggiornata dal 1992. Secondo l’Oms una persona è affetta da questo disturbo quando si verificano tre situazioni: mancanza di controllo sul tempo passato a giocare; priorità che viene data al videogioco rispetto agli altri interessi della vita; proseguire nel gioco nonostante le conseguenze negative dello stesso.

Come spesso accade in casi come questi, l’opinione pubblica si è spaccata letteralmente a metà: molti si sono schierati favorevolmente rispetto a questa nuova classificazione, mentre altri hanno espresso non poche perplessità. Perplessità manifestate anche da Thalita Malagò, Segretario generale dell’associazione editori sviluppatori videogiochi italiani, che dichiara: «Giocare (eccessivamente) ai videogiochi è in linea generale un comportamento profondamente diverso dagli altri comportamenti che rientrano nella lista delle dipendenze dell’Oms e lo stato attuale della ricerca sul tema non è per nulla concorde. Ci sono molte divisioni all’interno della comunità accademica che suggeriscono la mancanza di un consenso sulla definizione di una dipendenza da videogiochi. La stessa letteratura che ne afferma la configurabilità in molti casi si basa erroneamente su studi relativi alla dipendenza da gioco d’azzardo. La stessa definizione di “gaming disorder” utilizzata dall’Oms è un “copia incolla” della definizione di “gambling disorder”. Il processo in corso all’Oms non è peraltro stato finora molto trasparente. La base scientifica per la proposta di inclusione non è stata ancora resa disponibile».

«L’industria videoludica ha un ruolo primario nello sviluppo delle nuove tecnologie, inclusa la realtà virtuale, la realtà aumentata, l’intelligenza artificiale e i big data analysis, e sta aiutando la ricerca scientifica in molti settori, dalla sanità mentale allo Stem. Tutto questo – prosegue Malagò –. rischia di essere compromesso a causa della stigmatizzazione che l’industria dei videogiochi potrebbe subire a seguito di questa classificazione da parte dell’Oms. Inoltre l’industria dei videogiochi ha sempre dimostrato un grande senso di responsabilità verso il proprio pubblico non soltanto attraverso l’adozione del Pegi (sistema europeo di classificazione videogiochi per categorie di età in base ai contenuti ndr) in oltre 30 Paesi europei e l’introduzione dei sistemi di controllo parentale nelle console. Nella maggioranza dei videogiochi in commercio infatti l’editore informa l’utente sull’importanza di fare delle regolari pause durante le sessioni di gioco come regola di base».

Per avere un quadro più completo anche dal punto di vista scientifico, abbiamo chiesto un parere a Stefano Triberti, ricercatore di Psicologia della comunicazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e uno dei massimi esperti nazionali sugli effetti del gaming in ambito psicologico, nonché autore del libro «Psicologia dei videogiochi. Come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento».

«La letteratura scientifica ci dice che la dipendenza da videogiochi, per quanto rara, effettivamente esiste e pertanto è giusto che venga riconosciuta – spiega il ricercatore Stefano Triberti –. Detto questo, un altro problema tristemente noto in letteratura è che tale patologia è molto facile da confondere, a livello diagnostico, con i sintomi di altre tipologie di disagio, specialmente se lo psicoterapeuta incaricato della valutazione non ha competenze specifiche sul tema».

Ma come si fa a capire quando una persona è affetta da questo tipo di disturbo? Passare molte ore con la propria console è un campanello d’allarme oggettivo e affidabile? Non proprio, secondo Triberti. «Il “giocare tanto” non è un criterio necessario né sufficiente per individuare una dipendenza – spiega Triberti –. Ci sono infatti persone che giocano per notevolissimi quantitativi di tempo, come ad esempio atleti di eSports in allenamento, che tuttavia non sviluppano una dipendenza. Allo stato attuale della ricerca, la dipendenza dai videogiochi si manifesta quasi esclusivamente rispetto a giochi online (specialmente Mmorpgs). Ciò non significa assolutamente che giocare a un certo tipo di giochi causi la dipendenza; tuttavia, quando tali opportunità offerte dal gioco si interfacciano con situazioni di disagio sociale, persone insoddisfatte della propria vita reale possono arrivare a sostituire con il gioco le attività importanti della vita come scuola e lavoro. Per fare un esempio, non consideriamo un paziente dipendente da cocaina semplicemente perchè “passa molto tempo” a fare uso di droghe, ma perchè non riesce a farne a meno, e arriva a trascurare altre attività e a sprecare risorse per procurarsi la sostanza e farne uso, potenzialmente mettendo a rischio se stesso e gli altri».

Quando consultare uno specialista quindi? Una delle situazioni più comuni è il caso dei genitori che, preoccupati dal troppo tempo che il figlio passa con i videogiochi, si affidano ad uno psicoterapeuta paventando una dipendenza. In realtà, come sottolinea Triberti, spesso si tratta di ragazzi che soffocano i loro disagi sociali nel videogioco, che di fatto non è una dipendenza patologica ma una risposta alternativa alla vita reale. «In questo caso – spiega Triberti – ciò che i genitori non vedono, e che potrebbe emergere da analisi psicologiche più approfondite, potrebbe essere invece che il ragazzo in questione ha subito forti delusioni nei rapporti coi coetanei, oppure è oggetto di atti di bullismo. È per questo che non vuole andare a scuola, preferisce non uscire di casa, e stando in casa la fonte di intrattenimento preferenziale e anche di sviluppo di relazioni alternative diventa appunto il videogioco. Se tale situazione viene identificata in tempo e i reali problemi vengono adeguatamente trattati, il tempo di gioco si ridurrà da solo e il ragazzo ritroverà interesse anche per altre attività. Questa non è una psicopatologia, è una situazione di disagio sociale. Situazioni che, purtroppo, sono anche molto più frequenti della dipendenza da videogiochi».

Proviamo per un attimo a ribaltare il punto di vista. Videogioco come malattia, ma anche come terapia. Ricordiamo infatti esempi positivi in cui il gaming può servire come vera e propria psicoterapia. Che ne pensa di queste tecniche innovative e del potenziale che il gaming può avere nell’aiutare pazienti con disturbi comportamentali? «Vorrei citare due ambiti molto recenti su cui io stesso sto lavorando insieme ai miei colleghi presso l’Università Cattolica di Milano: uno è l’utilizzo dei videogiochi per potenziare la regolazione emotiva. Il secondo ambito, molto affascinante, è l’utilizzo delle proprietà morali dei videogiochi. Le ricerche nostre e di altri degli ultimi anni hanno dimostrato che la scelta e il posizionamento morale (per esempio, preferire sistematicamente personaggi buoni o malvagi) influenzano abilità sociali come l’empatia, ovvero la capacità di comprendere le emozioni degli altri. La speranza è poter usare in futuro sistemi simili con persone che hanno effettivamente delle difficoltà patologiche nel distinguere tra giusto e sbagliato, per esempio gli psicopatici», conclude Triberti.

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