Gli affari di cuore
di uno scrittore sportivo

«Di chi è questo cuore» (La Nave di Teseo, 2019, pp. 246, euro 17), romanzo di Mauro Covacich, potrebbe far pensare a un immaginario da canzone popolare anni ’60. Invece, più che il cuore come dispensatore di appartenenze affettive, qui si tratta del cuore come muscolo, organo delle nostre più o meno povere, quando non sgangherate, anatomie.

L’Io narrante coincide, per quanto è dato conoscere, con lo stesso autore: siamo pienamente, e con brillante, persuasiva coniugazione del paradigma, nelle oggi tanto battute plaghe dell’autofiction. Un Io, o personaggio-autore, che si dedica, con applicazione quasi fanatica, a quel dilettantismo inspiegabilmente, masochisticamente professionalizzato, a quell’amatorialità drastica- mente elevata a competitività su scala nazionale, che si chiama, per esempio, circuito Master. Ciò che la sua compagna, Susanna, chiama, nel suo immaginifico lessico familiare, thanatlon: combinazione ficcante fra gara sportiva articolata in discipline plurime, telethon e, forse soprattutto, thanatos. Eco ora, inopinatamente attagliata al caso dello scrittore, a cui, dopo anni di allenamenti, viene diagnosticato un difetto cardiaco.

Cosa, succede, a questo punto? «Cerco di tenere lo sguardo lontano dall’orologio, che segna la distanza, l’andatura, le calorie, la frequenza con cui insiste a battere questo mio grosso cuore difettoso». Da chilometri e chilometri di nuoto e corsa, tra vasca e piste ciclabili, a «Eh sì, per un po’ lei deve stare a riposo». Diviso fra l’istinto a salvare il salvabile, ad autoconservarsi, e la pulsione, condivisa da tanti thanatleti, ad autodistruggersi nell’elevarsi, in una teleologia fagocitante, assoluta, in una fatica redentrice di ogni nostra umana miseria. Due romanzi, due città. Ne «La città interiore» (La Nave di Teseo, 2017), Covacich aveva restituito il suo rapporto con la sua Trieste, città della nascita e della vita pre-universitaria, dei fantasmi degli «avi» (Svevo, Bobi Bazlen, Saba, Quarantotti Gambini). Qui è Roma, dove Covacich si è trasferito dal 2005, a esuberare come sa fare lei, occupando quasi ogni pagina; in particolare Roma Nord, il Villaggio Olimpico dove lo scrittore abita, con i suoi lavavetri, le zingare, le relative strategie di sopravvivenza. La forza, la bellezza del romanzo è, allora, nella costruzione non di «personaggi», ma nel racconto (come «servizio») di persone vere, dal senzatetto, all’autore stesso, ai suoi amici, alla sua compagna: nello sforzo di arrivare «al cuore», variamente malato o afflitto, delle cose e degli uomini, sotto le infinite maschere delle ritualità condivise.

© RIPRODUZIONE RISERVATA