Hrabal e l’uragano
in un bicchiere di birra

Un libro da gustare con calma. Magari in un pomeriggio caldo, quando la voglia di quiete è una necessità. E con una birra non troppo gelata a portata di mano. Il titolo dell’opera è già fresco di suo: L’uragano di novembre.

Un libro di Bohumil Hrabal, scrittore ceco molto amato in patria e apprezzato in Italia grazie ad una fedele cerchia di appassionati che ne ha tradotto e diffuso i lavori. Nato nel fatidico 1914 che proiettò l’Europa nella prima guerra mondiale e spentosi nel 1997, Hrabal attraversò l’occupazione nazista e vide la Cecoslovacchia conformarsi sotto il peso del tallone sovietico fino al crollo del muro di Berlino e alla successiva separazione del Paese in due distinte nazioni nel 1993.

Hrabal riuscì a raggiungere soltanto in tarda età lo status riconosciuto di scrittore. Svariati accidenti gli impedirono di volta in volta la pubblicazione delle sue opere: rivolgimenti politici, censure, normalizzazione. Fu costretto a praticare mestieri diversi, dal venditore di giocattoli all’operaio in una fonderia, dal capostazione all’agente assicurativo.

Il compito più bizzarro che gli capitò fu l’addetto al recupero di carta da macero, dove finivano anche molti libri proibiti dal regime sovietico. Per molto tempo suoi scritti circolarono soltanto in forma clandestina, copiati e ricopiati, a volte rimaneggiati dagli stessi copisti, tanto da rendere complicato stabilire quale fosse la versione definitiva. Soltanto quando la cortina di ferro iniziò a sollevarsi davvero sulla Cecoslovacchia, ecco che il talento di Hrabal ottenne il giusto riconoscimento. I suoi libri più conosciuti e celebrati sono «Ho servito il re d’Inghilterra», «Una solitudine troppo rumorosa» e «Treni strettamente sorvegliati»; da quest’ultimo è stato anche tratto un film che ha vinto l’oscar come miglior opera straniera.

«L’uragano di novembre» è una singolare raccolta di scritti del 1989, frutto di una sintonia di Hrabal con il presente in marcia: egli avverte i sintomi di un Paese avviato al cambiamento e vuole darne testimonianza. Non si tratta però di narrativa in senso stretto, non ci sono storie compiute, ma un flusso di osservazioni, frammenti di cronache e pensieri autonomi che diventano il racconto. Hrabal racconta piccole cose del paesaggio urbano, le intreccia agli umori e ai ricordi: ci sono gattini affamati, ubriachi in vena di confidenze, soldati del Reich, accademici americani, Andy Warhol, Franz Kafka e Arthur Schopenhauer.

Leggendo i brani «Il flauto magico», «la cattedrale sommersa» e «Suicidio pubblico» gradualmente si impara ad apprezzare lo stile discontinuo, apparentemente svagato, sempre lieve e a tratti incoerente che però ha la forza di tuffarsi nel magma della storia di questo brandello pulsante d’Europa. Nel suo flusso di coscienza intriso di citazioni e travisazioni, Hrabal accompagna il lettore in un viaggio attraverso lo spirito di un popolo schiacciato dalle dittature, che ha saputo sviluppare la sua forma di resistenza nel privato, nella ricchezza dell’interiorità. Non a caso Hrabal affronta cita Laozi, padre del Taoismo, la filosofia dell’azione senza azione e probabilmente se ne serve come medicina quando deve affrontare fatti terribili: soldati tedeschi che deportano gli studenti, giovani che si danno fuoco, milizia che bastona la folla e lancia gas lacrimogeni. Ma afferrare una sola linea di pensiero di Hrabal è impossibile, tutto galleggia via pervaso da una leggera ebbrezza: è come l’osservazione della schiuma di una buona birra ai tavoli delle sue amate «pivnice» praghesi.

Il libro è completato da «Alcune frasi», una lettera-fiume su un tour estero, un viaggio hrabalizzato, trasformato in un lungo sogno itinerante tra interviste, letture universitarie e party con ospiti colti. Hrabal è divertito ma vaccinato dalle lusinghe del successo; rimbalza anche in Italia prima di recarsi agli «Stati esauditi d’America», ricchi e frenetici, ma con molti vuoti esistenziali. Lo scrittore si sofferma su dettagli e impressioni ricorrenti, tenta di redigere un diario, ma si inceppa su particolari quasi caricaturali che rimarcano l’originalità di un autore troppo onesto con sé stesso per rinnegare l’unica realtà raccontabile: quella dell’universo che ci portiamo dentro.

Gianlorenzo Barollo

© RIPRODUZIONE RISERVATA