I taglienti improvvisi
di Andrej Siniavskij

Ci sono frasi che definiscono una sensibilità umana, persino un’epoca. Come questa di Andrej Sinjavskij: «Quale tenerezza provi all’improvviso per un pezzo di sapone!…». Era il 1967, anche in Italia la società entrava in ebollizione.

Ci sono frasi che definiscono una sensibilità umana, persino un’epoca. Come questa di Andrej Sinjavskij: «Quale tenerezza provi all’improvviso per un pezzo di sapone!…».

Era il 1967, anche in Italia la società entrava in ebollizione e Jaca Book, a un anno dal famoso processo moscovita ai due intellettuali Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, pubblicava una raccolta di appunti che il primo aveva fatto arrivare ai suoi editori all’estero sotto lo pseudonimo di Abram Terz. «Di tutto ciò che ho scritto - dice Sinjavskij nella «Lettera all’editore» che apre la nuova edizione dei suoi Pensieri improvvisi - essi restano per me la cosa più difficile da spiegare». Difficile «definire di che tratti questo libro e che cosa si proponga». È un testo privo di disegno, «appunti occasionali» scritti mentre aspetta di essere arrestato: «Sentendo che il cerchio si andava sempre più stringendo» cercò di «lasciare di me stesso almeno questi rapidi appunti, capaci di definire i punti estremi della mia coscienza, quasi le sue coordinate. Rileggendoli ora trovo che prima di ogni altra cosa essi siano una ricerca spasmodica dell’aria per respirare. Qualcosa come gli estremi tentativi di un uomo per dire fino in fondo ciò che non ha detto in vita».

A volte sono semplici aforismi, spesso carichi di poesia, altre «autentici trattati in miniatura» - come ha scritto Alessandro Zaccuri, in cui Sinjavskij parla di donne sguaiate e di uomini avidi e bugiardi, dell’arroganza e della noia, di Dio e del sesso, di libertà. Assecondando pensieri che non aveva assimilato leggendo altri libri, ma che «spuntano dalle ossa»; e più spuntano «improvvisi» e più sono puri, come se la vita li avesse distillati.

Saggista e docente universitario, figlio di un nobile che aveva aderito con entusiasmo alla Rivoluzione, Sinjavskij negli anni ’60 era già, per gli intellettuali dell’Urss, un uomo su cui era «impresso il marchio della degradazione morale e spirituale». Lo sconterà con 5 anni di Gulag. In Occidente invece il suo libello fu il manifesto di una libertà dura, coraggiosa fino in fondo, sensibile a tutti i fattori della vita (il «sapone»), tenerezza compresa. Barchetta di carta su cui viaggiava un pensiero indipendente che nessuna moral majority poteva schiacciare. Allora Sinjavskij divenne un «dissidente» rispetto al modello sovietico. Oggi forse lo è ancora di più rispetto alla nostra cultura .

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