Maurizio Merli
il Callaghan nostrano

Occhi azzurri, capello biondo sempre a posto e un paio di baffi da macho man.

Questi i segni caratteristici di un volto che ha fatto la storia del cinema poliziottesco italiano: Maurizio Merli. La sua è stata una parabola breve ma molto intensa, stroncata nel 1989 da un improvviso malore su un campo da tennis a soli 49 anni. Quasi una beffa crudele per un attore che aveva fatto dell’azione il suo marchio interpretativo. Il cinema di Merli, attore icona di un genere che andava a braccetto con i titoloni della cronaca nera sparata sulle prime pagine dei giornali, viene raccontato dal giornalista Fulvio Fulvi nel libro «Maurizio Merli - il poliziotto ribelle», edito da Bloodbuster. Un racconto che, oltre a ripercorre passo per passo la carriera di Merli, raccoglie interviste e testimonianze capaci di restituirci un personaggio poco calcolatore, entusiasta e molto determinato.

Merli inizia presto a posare, già da studente di ragioneria, ma per gli obiettivi fotografici diventando un personaggio ricorrente e apprezzato - specie dal pubblico femminile - sulle pagine dei fotoromanzi più popolari. La decisione di sfruttare quello sguardo che «bucava» a fini professionali deve essere stata naturale, supportata comunque da un carattere grintoso, pronto alle sfide. E infatti durante gli anni ’60 e i primi anni ’74 Merli alterna la recitazione teatrale a partecipazioni sul grande schermo, parti secondarie in film in costume, commedie e thriller.

Non mancano i lavori in televisione, ai tempi esistevano soltanto i canali nazionali Rai, che però consentivano di raggiungere una vasta platea. Ed è proprio con la serie tivù «Il giovane Garibaldi» del 1974 che nasce la stella di Merli: capello lungo, sguardo intenso e propenso alle riprese movimentate, è il protagonista ideale per l’eroe dei due mondi. Il ’74 si conferma il suo anno perché al cinema escono «Zanna bianca alla riscossa» e «Catene», ossia azione nel west innevato di... Cortina d’Ampezzo e un drammone d’amore. Però la stella di Merli inizia a brillare con maggiore intensità quando decide di cimentarsi nell’action «Roma violenta», nei panni del commissario Betti.

Fu quello l’inizio di un un cammino che l’avrebbe incoronato come «re dei poliziotteschi» con titoli come «Roma a mano armata», «Napoli violenta», «Italia a mano armata», «Il commissario di ferro». Titoli deflagranti che preannunciano opere ricche d’azione, spari e inseguimenti senza tregua, dialoghi serrati ed emozioni forti. Merli si immedesima talmente nella parte che costruisce una sorta di alter ego: un poliziotto che crede nella giustizia e mette tutto se stesso nella lotta contro il crimine. Un eroe di tutti i giorni, senza poteri speciali e non pochi problemi per via del suo stile ruvido: per lui è sempre «Mezzogiorno di fuoco» e l’indagine va portata a termine ad ogni costo. Un Callaghan di casa nostra insomma.

Ma alle porte ci sono gli anni ’80 e i gusti del pubblico cambiano: il genere dei giustizieri metropolitani inizia ad accusare un cedimento al botteghino. Merli, forse vittima del suo personaggio poco malleabile in una stagione votata al compromesso, fatica ridefinire la sua immagine in nuovi contesti. Il commissario di ferro risulta ingombrante e usurato per un cinema italiano che coltiva il comico-demenziale e non regge la sfida degli effetti speciali hollywoodiani. Forse la stella dello sceriffo Merli avrebbe potuto brillare di nuovo con l’ondata giustizialista di tangentopoli, ma quella partita di tennis fatale di 26 anni fa ha relegato definitivamente questa ipotesi nello scaffale della fanta-cinematografia.

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