Nell’abisso degli slum
Levine riscatta i disperati

Un posto lontanissimo dallo sguardo di Dio. Kibera, slum di Nairobi. Sulle strade che sono serie di buche tenute insieme da una ragnatela d’asfalto, si arroventa i piedi Bingo detto il Tappo.

Ha quindici anni, ma ne dimostra molti meno. È più basso di chiunque abbia compiuto almeno sei anni. Disturbo della crescita. Un vantaggio, dal punto di vista professionale. Bingo è un corriere della droga, anzi, «il più grande corriere di Kibera, e probabilmente del mondo». Non a caso, l’ultimo romanzo di James A. Levine si intitola «La ragione per cui corro».

Il secondo, dall’autore de «Il quaderno azzurro». Anche qui, come in quel primo romanzo, il cerchio più basso dell’inferno, il livello più sporco e degradato del terzo mondo. Da cui una storia di riscatto possibile. Di fioritura, se possibile, di una qualche forma d’amore, gioia, creatività, passione. Montagne, distese di rifiuti: un miscuglio, maleolente ed informe, di plastiche, cibo andato a male, lattine, cartacce…: il tutto condito da una poltiglia nerastra.

Un regno su cui siede, in trono, Hari il pazzo, perennemente circondato da uno sciame di mosche. Bersaglio delle sassate di Bingo e del suo amico, Tonto George; che ha solo mezzo cervello, e si esprime a grugniti. In un posto dove ti sbudellano per un po’ di cibo, è un «atipico», perché ciccione. Onomastica sintomatica, nomen atque omen.

Sopra i corrieri, c’è Cane, quadro intermedio del traffico di droga: ha solo metà de naso perché, dicono, da piccolo un cane gli ha staccato metà naso con un morso. Persino il suo respiro è violento. Uno spaccato su come funziona lo spaccio di droga in un girone dell’inferno come Kibera. Un cerchio che non si ferma mai, come il respiro.

Uomini come animali. Devono saper leggere gli occhi, per fuggire o per attaccare, al momento giusto. Dio «non ha un ufficio a Kibera». Eppure persino Bingo detto Tappo, orfano di madre (uccisa), in quella discarica a cielo aperto che è Kibera, trova l’affetto di una madre putativa che vorrebbe portarselo in America, di una ragazza che vorrebbe lui restasse a Nairobi. Levine ha inventato un’epica, una retorica, un romanzesco degli slum. Gioca da maestro con questo nuovo «sublime d’en bas» del mondo globalizzato. Ma, a Kibera, c’è stato, e, se pure con qualche tratto di forse esagerata crudezza, l’affresco che ne viene fuori è potente, originale, coinvolgente, capace di stupire ed avvincere.
Vincenzo Guercio

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