Quell’uomo tranquillo
che diventò sterminatore

Com’è possibile che un «giovane uomo tranquillo», prima studente modello, poi professore di matematica, sia diventato «uno dei peggiori boia del XX secolo»? È una passione intellettuale, uno strenuo sforzo conoscitivo, quello che anima il lavoro di Rithy Panh. Raccontare, con il linguaggio delle immagini o delle parole, con i film o un libro, gli anni, dagli 11 ai 15, dal 1975 al 1979, passati nei campi di sterminio dei Khmer rossi.

Com’è possibile che un «giovane uomo tranquillo», prima studente modello, poi professore di matematica, sia diventato «uno dei peggiori boia del XX secolo»? È una passione intellettuale, uno strenuo sforzo conoscitivo, quello che anima il lavoro di Rithy Panh. Raccontare, con il linguaggio delle immagini o delle parole, con i film o un libro, gli anni, dagli 11 ai 15, dal 1975 al 1979, passati nei campi di sterminio dei Khmer rossi.

«L’eliminazione» (Feltrinelli) è, in qualche modo, la faccia di carta, l’integrazione/pendant, in parole, del documentario «S21. La macchina di morte dei Khmer rossi». Dunque anche il racconto del lavoro di raccolta delle testimonianze, del lungo faccia a faccia con il signore delle torture: Duch. Lui lo studente brillante e professore di matematica, poi capo del centro di sterminio S21 che dà il titolo al film. Cui, più recentemente, ne è seguito un altro: «The Missing Picture», vincitore a Cannes 2013 nella sezione «Un certain regard», ora in corsa per l’Oscar come miglior film straniero, in competizione con il nostro «La grande bellezza».

«Non cerco la verità, ma la conoscenza», il criterio guida di Rithy. Indagare l’enigma umano. L’interrogatorio al carnefice per restituirlo all’umanità, al gregge dei simili; perché dica la sua verità, aiuti almeno a capire (come ha potuto farlo?); dar voce alle vittime perché testimonino ciò che hanno subìto (quali sono le conseguenze? In primo luogo sullo stesso Rithy). Su entrambi i fronti, i risultati conoscitivi sono da non perdere. Come in tutti i capolavori della letteratura concentrazionaria, non c’è odio. La voce di Duch è «dolce», i suoi modi «gentili»: è un uomo dalla «memoria di ferro», un vero perfezionista della «macchina del massacro».

Rathy ha risolto bene il problema di trovare la giusta distanza: no sacralizzazioni, banalizzazioni, invettive, pietismi, sottolineature. I fatti parlano. Un candore agghiacciante nel confessare le devastazioni subìte. Specie nel buio dell’anima: «il massacro ha distrutto una parte di me». Perché «ogni oltraggio è morte», spiegava, prima di Panh, Carlo Emilio Gadda. In queste pagine sfilano le morti di quasi tutti i familiari di Rithy, gettati in fosse senza nome: «La loro lapide siamo noi». E, insieme, il lavoro di «ricerca, comprensione, spiegazione». È questa la lotta contro «L’eliminazione».
Vincenzo Guercio

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