Vitali racconta «Lo zio»
Un’Italia pulita e vincente

«Ho 16 anni e nasce lo Zio. Padrino di quel secondo, apocrifo battesimo è stato Giampiero Marini quando, rispondendo alla sua domanda su quanti anni avessi ho risposto. Per sentirmi obiettare: “Macché 16 anni!”. Con quei baffi che esibivo, aveva aggiunto, sembravo proprio suo zio». Lui, Giuseppe Raffaele Bergomi da Settala, parla; l’altro, Andrea Vitali, medico di Bellano, scrittore capace e divertente, in questo strano libro scritto a quattro mani annota, stende i ricordi del calciatore, ammiccando più che esplicitando, forse per non perdere il gusto di quella asciutta espressività tutta lombarda che è un po’ lo stigma del nostro eroe. Eroe, sì, perché il calcio è materia di omeriche passioni, e il Beppe a 18 anni, nell’82 a Madrid è stato il più giovane calciatore italiano di tutti i tempi ad alzare la Coppa del Mondo. Guerre vinte sul campo, memorie indelebili che in quest’estate di esilio dai verdi campi della gloria calcistica globale, a dirla tutta fanno anche un po’ male.

Dai campetti dell’oratorio, con don Narciso a fare inutilmente la morale alla De Coubertin ai ragazzi del sabato pomeriggio, alla crescita sui campetti minori, gli interni di vita familiare, con la mamma sempre in attesa di una telefonata, fino alle sfide amorose con la svizzera e all’anno magico del trionfo al Santiago Bernabéu, Vitali trasforma la vita di Bergomi in un romanzo a tinte grigiazzurre, che ha gli stessi toni della commedia umana che il Lecchese nel suo ambulatorio letterario è abituato così bene ad auscultare. Resta sempre sotto di un’ottava, un passo indietro nel dare voce alla semplicità e intelligenza di questo grande del calcio che qui racconta molto più i suoi errori, le sue topiche che i gesti atletici rimasti memorabili: tra ironia e paradosso Vitali ricostruiscein formato romanzo, ibridando Proust e la Playstation, la vita del ragazzino cresciuto in periferia, un’infanzia come tante, con la palla al piede, negli anni ‘60.

Altri tempi: una famiglia quasi indifferente alla sua ostinata scelta per il calcio inteso come avvenire. Le partite da sbarbati con Riccardo Ferri, l’incontro con il Trap, la Nazionale juniores a Lipsia del 1980, divagando un po’ tra Peter Handke ed Enzo Jannacci, o le imperscrutabili vie dell’Altissimo, tanto per dire, anzi per accennare all’attento lettore che lui, lo Zio, è un ragazzo di poche parole, ma certo non è stato mai uno stupido, un adolescente sviluppato a metà dall’eccesso di palleggio o di corse a perdifiato sulla fascia. E non solo per via di quei baffi austroungarici che ne hanno fatto il luogotenente di un’Italia pulita, mai sbruffona, vincente.

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