Curare l'obesità
guarisce il diabete

Curare la grave obesità in sala operatoria può guarire nello stesso paziente anche il diabete di tipo 2, quello legato proprio all'eccesso di peso e all'inattività fisica.

Curare la grave obesità in sala operatoria può guarire nello stesso paziente anche il diabete di tipo 2, quello legato proprio all'eccesso di peso e all'inattività fisica.

Lo dimostrano due studi indipendenti, di cui uno italiano, da poco pubblicati contemporaneamente sul New England Journal of Medicine, dove si spiega che la chirurgia per ridurre il peso (‘bariatricà) è in grado di sconfiggere anche il diabete.

«Da molti anni - dice Antonio Pontiroli, direttore cattedra di medicina interna all'Università degli Studi di Milano e presidente del Congresso nazionale Diabete-Obesità - si discute sull'efficacia della chirurgia bariatrica anche come cura per il diabete. Fino ad oggi si sapeva che è in grado di far scomparire il diabete, entro 2 anni dall'operazione, nell'82% delle persone molto obese e che nel 62% dei casi il diabete non ricompare dopo i 2 anni dall'intervento. Tanto è vero che le principali linee guida internazionali e italiane già includono l'intervent chirurgico tra le raccomandazioni dicura per le persone adulte con diabete tipo 2 e obesità grave».

I due studi appena pubblicati «sono particolarmente importanti, anche se non possiamo considerarli conclusivi - continua l'esperto - perchè per la prima volta confrontano, alla pari, gli effetti del bisturi con quelli dei farmaci».

L'unico dubbio ancora da risolvere «riguarda il tipo di intervento chirurgico. Entrambi gli studi sono stati condotti con operazioni particolarmente invasive, gravose, non sempre adatte a tutti. Questi dati andrebbero ulteriormente confermati da studi che adottino interventi meno impegnativi».

Ad oggi, in Italia, con la chirurgia bariatrica si curano poco più dell'l% dei pazienti che potrebbero trarne beneficio. Peggiore la situazione in altri Paesi: in Gran Bretagna, ad esempio, la percentuale è la metà (0,5%). Le ragioni, secondo Pontiroli, sono «le più varie: dalla scarsa conoscenza, alla riluttanza del paziente, all'inerzia terapeutica, alla mancanza di dati sufficientemente chiari e certi sulle possibilità di risultato. Oggi almeno, quest'ultima ragione sembrerebbe venire meno». (ANSA).

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