Con i «nanodroni»
tumori più «centrati»

Oggi è possibile superare la barriera del cancro, finora impermeabile ai farmaci chemioterapici tradizionali. Nanoparticelle, che funzionano come droni, sono in grado di attraversare la massa densa che circonda il tumore e di trasportare il medicinale in maniera selettiva nelle cellule malate, in concentrazioni maggiori (+33%) e senza danneggiare i tessuti sani.

Uno di questi farmaci, il Nab paclitaxel (paclitaxel legato all'albumina in nanoparticelle) è già utilizzato con successo nel tumore del seno, che ogni anno nel nostro Paese fa registrare 46mila nuovi casi.
Per discutere delle prospettive offerte dall'innovazione tecnologica si è svolto a Roma un convegno nazionale patrocinato da AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e SIFO (Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie).

«Un nanometro - ha spiegato Mauro Ferrari, presidente del Methodist Hospital Research Institute di Houston, tra i più importante centri di ricerca al mondo nel campo della nanomedicina - equivale a un miliardesimo di metro. In queste dimensioni le proprietà fisiche della materia e il modo in cui si esprimono le leggi della natura cambiano. Le nanotech modificano radicalmente i principi della lotta al cancro perchè aprono nuovi orizzonti nella personalizzazione della terapia».

Una particella di circa 100 nanometri è in grado entrare nella cellula (che ha un diametro compreso fra i 10.000 ai 20.000 nanometri) e di interagire con il DNA e con le proteine.

«Oggi, per la prima volta, siamo di fronte a un sensibile passo in avanti nel trattamento del tumore del pancreas - ha affermato Stefano Cascinu, presidente AIOM -. Ogni anno in Italia si registrano 11.500 nuove diagnosi. Si tratta di una delle neoplasie a prognosi più infausta: solo il 5% degli uomini e il 6% delle donne risultano vivi a 5 anni, senza sensibili scostamenti nell'ultimo ventennio.  In uno studio di fase III Nab paclitaxel con gemcitabina ha infatti evidenziato risultati clinici significativi, con un aumento del 59% nella sopravvivenza a un anno e un tasso raddoppiato a due anni. In questa formulazione vengono sfruttate le potenzialità dell'albumina, una proteina che funziona come un veicolo naturale in grado di trasportare più rapidamente il farmaco attraverso i vasi sanguigni. In queste dimensioni infatti il medicinale è 100 volte più piccolo rispetto a un globulo rosso. L'albumina si lega poi a una proteina, SPARC, presente nelle cellule neoplastiche del pancreas consentendo a maggiori quantità di principio attivo di penetrare nel tumore». 

In questo modo è possibile ottenere livelli di paclitaxel libero nell'organismo 10 volte superiori rispetto a quelli rilasciati dalla formulazione tradizionale e raggiungere concentrazioni più alte del 33% all'interno delle cellule tumorali. Senza provocare reazioni allergiche perchè non vengono utilizzati solventi chimici.

«Un nuovo trattamento è realmente innovativo quando offre al paziente benefici maggiori rispetto alle opzioni precedentemente disponibili, in termini di efficacia, sicurezza e convenienza - ha aggiunto Laura Fabrizio, presidente di SIFO -. Il farmacista ospedaliero è coinvolto a pieno titolo nell'introduzione delle nuove tecnologie, come ad esempio le nanotecnologie, ed il suo contributo nell'ambito dell'innovazione è richiesto in tutte le fasi del percorso, dalla valutazione, alla decisione fino al monitoraggio degli esiti. Innovare vuol dire esplorare percorsi, verificare programmi ed esperienze che, a livello centrale o periferico, tentino di dare risposte praticabili, rispettando i principi di equità e sostenibilità che presiedono il sistema sanitario pubblico».

«La sfida della sostenibilità - ha concluso Cascinu - per il nostro sistema sanitario, si può vincere garantendo l'accesso a trattamenti con un ottimo rapporto costo/beneficio. La parola d'ordine deve essere appropriatezza». 

A gennaio 2011 i ricercatori dell'Istituto Italiano di Tecnologia mostravano un dispositivo fotovoltaico in grado di indurre la comunicazione tra neuroni in risposta alla luce. Oggi gli stessi ricercatori dimostrano la sua efficacia nel restituire la sensibilità alla luce a retine prive di fotorecettori, confermando la possibilità di avere, nel prossimo futuro, un sostituto artificiale organico della retina anche per l'uomo.

Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale Nature Photonics dal titolo «A polymer optoelectronic interface restores light sensitivity in blind rat retinas», è stato condotto dai ricercatori dell'Istituto Italiano di Tecnologia, in particolare del Dipartimento di Neuroscience and Brain Technologies (NBT) a Genova e del Center for Nano Science and Technology (CNST) presso il Politecnico di Milano, in collaborazione con l'Università dell'Aquila, l'Università di Genova e l'UO Oculistica dell'Ospedale S. Cuore - Don Calabria di Negrar (Verona) ed è finanziato dalla Fondazione Telethon.

La retina è composta dai fotorecettori neuronali, cioè neuroni chiamati coni e bastoncelli capaci di captare i segnali luminosi e di trasformarli in segnali elettrici alle cellule gangliari della retina e quindi al cervello attraverso il nervo ottico. Nel loro studio, i ricercatori hanno utilizzato la retina di mammiferi in cui fosse presente una degenerazione dei fotorecettori, in modo da avere un modello sperimentale di alcune patologie degenerative della retina, quali la retinite pigmentosa o la degenerazione maculare.

L'obiettivo è stato di sostituire i fotorecettori con un materiale sensibile alla luce, in grado di restituire la fotosensibilità della retina, adagiando la retina su uno strato di semiconduttore organico fotovoltaico.

«Rispetto alla miscela a due componenti usata due anni fa, il materiale è leggermente diverso», ha spiegato Guglielmo Lanzani, Coordinatore del CNST dell'Istituto Italiano di Tecnologia. «Abbiamo, infatti, utilizzato un singolo materiale polimerico semiconduttore, più semplice e meno tossico per il tessuto biologico».

Il materiale è un semiconduttore organico fotovoltaico, detto rr-P3HT, che a differenza dei materiali metallici, o a base di silicio, utilizzati finora per tali interfacce biotecnologiche, è soffice, leggero, flessibile e altamente biocompatibile, oltre che essere naturalmente sensibile alla luce visibile. L'effetto fotovoltaico che ne è alla base lo rende, poi, una protesi che non necessita di una sorgente elettrica esterna per funzionare.

«Il risultato che abbiamo raggiunto è fondamentale per procedere verso la realizzazione di una protesi retinica organica per l'uomo», ha commentato Fabio Benfenati, Direttore del Dipartimento di NBT dell'Istituto Italiano di Tecnologia. «Abbiamo dimostrato che il tessuto retinico degenerato nei fotorecettori, una volta a contatto con lo strato di semiconduttore, recupera la sua fotosensibilità a livelli di luminosità paragonabili alla luce diurna e genera segnali elettrici nel nervo ottico del tutto simili a quelli generati da retine normali».

Il dispositivo presenta, infine, il vantaggio di ottenere un effetto della stimolazione luminosa estremamente localizzato, riproducendo la risoluzione spaziale della retina. Il passo successivo sarà, quindi, l'applicazione di questo dispositivo a modelli animali di retinite pigmentosa per verificare, dopo l'impianto retinico, la sua efficacia nel recuperare la funzione visiva, la sua biocompatibilità e durata a lungo termine. (ITALPRESS).

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