Cividini festeggia i suoi trent’anni
«Gli inizi? Magazziniere in un maglificio»

Il 23 febbraio sfilerà a Palazzo Reale per la Settimana della Moda milanese, una passerella con tanto di performance artistica dal vivo per festeggiare trent’anni di storia e di una moda «fedele alla sua identità» dice Piero Cividini, a capo della casa di moda bergamasca nata insieme alla moglie Miriam dopo «anni di avventure, casi della vita, curiose domande che ci hanno portato a essere quello che siamo».

Artigiani-artisti nel fashion system. Alla base la curiosità, scelte «ribelli, il non scendere per forza a compromessi» continua lo stilista. L’avventura inizia però molto prima di 30 anni fa, esattamente quando aveva 19 anni.

«Mio padre, commerciante di Dalmine nel mondo dell’agricoltura, non mi aveva lasciato scelta: se avessi voluto fare l’università, avrei dovuto scegliere Ingegneria. Nessun’altra opzione, era un dictat il suo, e io che arrivavo dall’Artistico ero decisamente un pesce fuor d’acqua tra numeri e formule matematiche».

Ma accettò.

«Sì, come quando mi disse che se a 19 anni volevo andare in vacanza con gli amici mi sarei dovuto cercare un lavoro per pagarmi il viaggio».

Da quel lavoro estivo è iniziato tutto.
«In via Mazzi, a Bergamo, un maglificio cercava un magazziniere, un tuttofare. Iniziai a lavorarci, ed ero molto colpito dalla figura dello stilista, di origine polacca, che disegnava la collezione donna. Chiesi di poterlo conoscere e lui fu molto colpito da quel 19enne curioso. Si faceva chiamare Conrad Stefan Conrad».

Poi arrivarono le vacanze estive.

«E io avevo raccolto il denaro sufficiente per il viaggio, ma quando tornai dalle vacanze e ripresi Ingegneria il maglificio mi chiamò di nuovo. Era Conrad che mi cercava per andare con lui due settimane in giro per la Germania a presentare la sua collezione. A quei tempi si faceva così: sacca in spalla a raccontare i modelli. Mi propose uno stipendio da 5 mila lire al giorno, tutto spesato, in viaggio per l’Europa. Non sapevo neanche come si appendesse un capo, non conoscevo materiali e non avevo alcuna nozione stilistica e tecnica di prodotto, ma l’offerta era una bella sfida e da qualche parte dovevo pur iniziare».

E il dictat di suo padre?

«Iniziò un tira e molla con tanto di cena in famiglia ufficiale con Conrad che convinse la mia famiglia. Da quel viaggio imparai cosa fosse una collezione moda. Ma non solo: le due settimane diventarono due mesi e io capii che quel mondo di lana e stile era fatto per me».

Ma Ingegneria?

«Tornai a casa con un’infarinatura di francese, inglese e tedesco. Dormii due giorni di seguito e poi feci Analisi 1. A quel punto parlai con mio padre: la facoltà di Lingue fu il giusto compromesso mentre continuavo a dare una mano a Conrad per le campagne vendita per tutta Europa».

In parallelo c’è la storia di Miriam, sua moglie. A quei tempi eravate già fidanzati?

«Siamo nati fidanzati (sorride, ndr). Anche lei aveva frequentato controvoglia una scuola che non le apparteneva, Ragioneria, per proseguire con una facoltà di spaccatura, Filosofia, ma finì, grazie alla conoscenza del tedesco, nell’ufficio commerciale di una camiceria di Zingonia. Durò poco in quel ruolo: curiosa e attenta, fu notata dal titolare che la sfruttò in ambito stilistico. Il caso volle che quella camiceria riforniva anche Giorgio Armani che la volle con sé, proprio nel primo anno che sfilava con il sui nome: finì così a Firenze a lavorare per il brand milanese. Poi ci furono Versace e Valentino».

Quando decideste di fare da soli?

«Nel 1982: aprimmo uno studio stilistico in via Clara Maffeis, a Bergamo. Lavoravamo per tutte le case di moda e le aziende che avevano un progetto da avviare: facevamo collezioni sportive, beachwear, fino a linee di maglieria. Giravamo l’Europa per trasformare un’idea in una collezione».

Poi cosa succede?

«Nel 1989 decidiamo di creare il nostro marchio: nasce Cividini e nasce dalla maglieria, espressione di un fare moda che rifiutava e rifiuta anche oggi slanci edonistici e consumistici propri di un sistema all’insegna dell’effimero. Partiamo dal cashmere: ad Amburgo un amico mi parla della resa di questa lana nella maglieria, a quei tempi relegata per una moda classica, invecchiata dalla tradizione. Torno in Italia e a Como vedo in vetrina un maglione in cashmere. Entro e lo compro e decido che quel fare artigianale era ciò che stavamo cercando».

Ma c’è sempre un «ma» nelle storie.

«Che mi porta a cercare una realtà artigianale per la mia produzione: è così che arrivo a Vicenza ed è così che presentiamo la prima collezione totalmente in cashmere, nei colori più neutri: maglieria donna senza orpelli, minimale, senza costruzioni, bordi, elaborazioni. Tutto questo mentre il mondo della moda spingeva sul jacard e linee elaborate».

Cividini si fa conoscere al Grand Hotel di Milano per il suo «minimalismo spinto». Era il 1989. E poi?

«Nel giro di due stagioni troviamo la nostra strada e il nostro mercato: dalla Germania a tutto il Nord Europa, dagli Stati Uniti fino al Giappone. Poi l’Italia».

Qualche data memorizzata?

«Nel 1994 apriamo lo showroom in Corso Monforte a Milano, nel 1995 la prima sfilata nella Settimana della moda con la presentazione del total look. Nel 1998 arriva anche la collezione uomo. Nel 2006 il primo monomarca in Giappone: a oggi sono 19, tutti lì».

E la maglieria è sempre dal gusto artigianale, con il rilancio della capsule del «Fatto a mano».

«Si chiama coerenza, che è un’altra cosa rispetto al business. La nostra fortuna è stata quella di essere stati scelti e selezionati da una clientela internazionale che ama il nostro gusto, la nostra filosofia: quella di lavorare insieme, mantenendo un’identità che si sta evolvendo con i tempi. Inventando cose che non esistono, trasformando cose che esistono. Divertendoci, con la passione condivisa del primo giorno».

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