«Nei miei panni» e nel cuore
L’architetto sartoriale in città

In un giardino d’inverno bimbe leggere corrono nel vento. Piroette e ruote tra l’erba gelata, abbracciate da gorgiere di stoffa, scaldacolli in lana, avvolte in morbidi abiti da sovrapporre e gilet in alpaca. Sono bambine felici, che si fanno raccontare da Cristina Gamberoni.

In un giardino d’inverno bimbe leggere corrono nel vento. Piroette e ruote tra l’erba gelata, abbracciate da gorgiere di stoffa, scaldacolli in lana, avvolte in morbidi abiti da sovrapporre e gilet in alpaca. Sono bambine felici, che si lasciano cullare dai colori della natura, che si fanno raccontare dalle sapienti mani di Cristina Gamberoni. È un architetto Cristina, e c’era da intuirlo nel suo modo di organizzare forme, definire gli accostamenti di trame e colori, inquadrare le angolature dei suoi scatti, on line su un blog che si lascia scorrere, che corre via veloce, quasi fosse anche questo in movimento. Si chiama neimieipanni.it perché «Nei miei panni» è il marchio di questa bergamasca 40enne originaria di Redona.

Il suo progetto, nato nel 2006, è ricco di idee e cose da fare, tra continua ricerca e formazione. Dai corsi alla Fondazione Capucci di Firenze al bisogno di scoprire la terra, le sue ondulazioni, la natura e i suoi giochi di luce. E poi basta guardare loro, da cui si ispira: Amelia ed Agata, le sue bambine che corrono, giocano, che vivono la loro vita di fanciulle. È una moda poetica, questa, un incrocio di artigianalità e fantasia. Che viene da lontano, quando da piccola Cristina si rintanava in un angolo della casa di campagna con pezzi di stoffa: «Io cuciscio» diceva, e la zia più affezionata le insegnava, passo dopo passo, l’arte della maglia e dell’uncinetto. «Arrivo da una famiglia che prima di acquistare si domandava sempre se quella cosa poteva essere costruita - racconta -. L’approccio del “facciamo” è mia filosofia di vita e mi è rimasta attaccata addosso». Come quando a 20 anni all’InterRail faceva l’uncinetto tra un viaggio e l’altro, mentre ora ha sempre in borsa pezzi di stoffa, anche solo da guardare, da far scivolare tra le dita.

Dall’improvvisazione, dalla voglia di fare, arriva poi il momento di strutturarsi, di organizzare un progetto, che viaggia in parallelo con l’attività di architetto: «Capita allora nel 2006 che leggo proprio su L’Eco di Bergamo di un concorso per sarte a Sant’Omobono - racconta -: ci ho provato con un abito che avevo cucito per un’amica, i vestititi andavano poi all’asta per beneficenza e mi ero già organizzata con lei per poi acquistarlo alla fine del concorso» continua Cristina. In giuria gli stilisti Stefano Cavalleri e Daniela Gregis, con pure il presidente della Camera della Moda Mario Boselli a premiare. «Nomi altisonanti, il mio abito vince il riconoscimento del più originale e all’asta va al rialzo con Cavalleri che se lo compra».

Prende forma così l’idea di fare qualcosa di più definito, sempre con la leggerezza frutto dell’idea e dell’istinto, «ma con competenza e responsabilità verso il prodotto». Nasce quindi il brand «Nei miei panni», «perché quella di questi abiti, da donna e da bambina – spiega -, sono io che prendo forma». In cotoni leggeri, lini e magline che si incastrano, si sovrappongono, si cuciono e ricuciono. Si trasformano. «Sperimentando forme, lavorazioni di materiali, studiando soprattutto la materia». E qui esce la sua vena di architetta, ligia, anche didattica, con pure un progetto di corsi di cucito che Cristina porta avanti da alcune stagioni (il prossimo in primavera, per info sul blog neimieipanni.it) presso l’Hydroware di Alzano: si chiama «Cucire insieme tra le piante» e sono tre incontri dove i bambini imparano e progettano un capo. Scegliendo stoffe e colori, scegliendo loro cosa fare e con quali tempi. «Se no non è divertente» ride Cristina e le parole sgorgano leggere mentre le si illuminano gli occhi chiari. Niente spigoli per i suoi abiti, ma solo materia che incontra la forma e l’immagine che abbraccia il movimento: «I miei sono pezzi unici, sartoriali e rifiniti a mano, comodi, realizzati in materiali naturali e pensati per attraversare gli anni».

Che durano nel tempo, tra righe e pois, tra tinte accese e toni neutri. Qui c’è il valore artigianale dell’abito, c’è la consapevolezza che sia stato pensato e amato mentre è stato cucito. Lo si capisce anche dal blog: «Una finestra per affacciarsi su un modo di sentire e percepire la bellezza del quotidiano» continua Cristina. Parole, immagini e abiti in movimento: «Perché ci devi vivere con questi abiti, e correre, godendosi ogni attimo – dice -: perché bisogna stare bene nella propria vita, soprattutto in questa epoca così anonima e spersonalizzante, dove dobbiamo credere nelle idee e lottare per costruire qualcosa di nuovo». E lei lo fa, cucendo: «Cucio perché mi piace, perché è un lavoro manuale che produce qualcosa di concreto. Dell’abito amo la materia, la risposta del tessuto al contatto, la morbidezza o la rigidezza, vedere come un tessuto cade, si piega e si arriccia, la texture e la superficie, il colore e la risposta emotiva alla percezione del tatto e della vista».

Così l’abito prende la sua forma, che «può assecondare, rivestire, accompagnare il movimento ma anche imporlo, dirigerlo, crearlo o impedirlo». Ma soprattutto l’abito è fatto per essere portato: «E così smette di appartenermi e diventa di chi lo indossa». Riappropriandosi di una nuova vita. Veloce, tra stoffe e fantasie. E hanno ragione le sue bimbe quando provano a raccontare Cristina: «Dove c’è la mamma c’è sempre qualche filo colorato».

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