Sulle orme di Sandokan (e di Salgari)
nella natura selvaggia del Borneo

Sul nostro pianeta c’è una terra coperta dalla foresta più antica del mondo - quasi 130 milioni di anni - perché, per una fortunata collocazione geografica, non è mai stata coinvolta dalle glaciazioni terrestri.

In questa terra abitano alcune specie di animali, come l’orangotango, l’elefante pigmeo e le scimmie nasiche, che non esistono in nessun altro luogo. Questa terra è il Borneo, la terza isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e la Nuova Guinea, oggi divisa in tre stati: Indonesia, Malesia ed il Sultanato del Brunei. Attorno, altre isole dal fascino tutto orientale: Sumatra, Giava e Sulawesi. Ma il Borneo è unico. Come la sua storia.

Venne scoperto dai reduci della flotta di Magellano nel 1521: pur stremati dalla fatica di una sfortunata spedizione, capirono subito di essere arrivati nella mitica “Isola del tesoro”, grazie a ricche riserve di miniere, oro, diamanti, manganese. E piantagioni di caucciù, caffè, riso e tabacco. Tutto in mano ad un solo uomo: il ricchissimo Sultano del Brunei, che allora la possedeva interamente.

Subito, l’isola divenne ambita da tutti gli europei. Spagnoli, olandesi ed inglesi volevano impadronirsi di queste ricchezze. Ma nessuno di loro aveva capito che il vero tesoro del Borneo stava nella sua natura, un paradiso della biodiversità: si contano quindicimila specie di piante da fiore, tremila di alberi, duecento specie di mammiferi terrestri e quattrocento di uccelli. E ancora oggi, ogni anno, se ne scoprono di nuove. Camminare nella foresta, in effetti, è una esperienza unica. La vegetazione, fittissima, fa calare tutto attorno una strana luce, quasi il cielo si fosse improvvisamente rabbuiato. Per muoversi, serve un machete, affilatissimo, che permetta di crearsi un varco tra liane ed alberi.

Ad ogni passo, si deve guardare sotto i propri piedi perché possono esserci scorpioni. Piccoli e pericolosi. Ma anche sopra le proprie teste, perché quelle che sembrano liane, possono rivelarsi serpenti. Velenosi e mortali. Persino avvicinarsi ad una piccola palude può essere rischioso: ovunque, anche appoggiate alle foglie che galleggiano, ci sono sanguisughe in grado di percepire il calore dei corpi e di attaccarsi, con le loro bocche dentate, per succhiare il sangue. Da ogni direzione, urla di scimmie, versi di pappagalli, rumori dei venti. Ci si volta sempre, per paura di essere seguiti da qualche animale. E forse non è una precauzione del tutto inutile. Ma camminando per questi luoghi selvaggi, si ha la sensazione di esserci già stati. Perché la mente corre alla propria adolescenza, quando alla TV venivano trasmesse le avventure di Sandokan.

Per lui, un titolo quasi regale: la Tigre di Mompracen. E questa isola, il suo regno. Un eroe che ogni ragazzo sognava di essere. Perché Sandokan era sì un pirata. Ma buono. Combatteva contro gli invasori inglesi che avevano ucciso i suoi genitori. Attaccava la Compagnia delle Indie che voleva depredare le ricchezze della sua terra. Al suo seguito un piccolo esercito di uomini a lui fedeli: tra i più vicini, l’amico Yanez, il portoghese gran fumatore e bevitore di te. Sandokan, uomo forte e bello, non poteva che avere belle donne ai suoi piedi: tra tutte lei, Marianna, la perla di Labuan.

Una frase riassume il personaggio: «Sandokan è un uomo in grado di trascinare, è nato capo. Con lui, dieci uomini sono un esercito. Lo uccidete e lo rivedrete vivo. Riuscite a prenderlo, ma è già scappato. Non combattete solo un uomo, ma una leggenda». Il successo televisivo non fa altro che ripetere il successo editoriale che le avventure di Sandokan avevano riscosso al momento della loro pubblicazione. E riportano di nuovo l’attenzione sullo scrittore che aveva creato un mito: Emilio Salgàri.

Siamo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento: gli entusiasmi dell’Unità di Italia si sono già spenti. L’Italia è un paese povero, senza grandi prospettive. Non a caso, la scena letteraria è dominata dal libro«Cuore» di Edmondo de Amicis: una lettura nata più per educare che per appassionare. Più noiosa che avventurosa.

Ma, improvvisamente, sulla scena letteraria, un precario scrittore veronese, trasferitosi a Torino, porta una ventata di novità. Salgàri, disilluso dalla propria vita, segnata da tragedie familiari, da debiti e da una carriera sottotono, preferisce sognare. E comincia a scrivere di avventure incredibili ed amori appassionati. Immagina foreste selvagge e mari lontani. Ma soprattutto, inventa la figura di Sandokan che, forse, è il personaggio che lui stesso avrebbe voluto essere. Forte e coraggioso. Bello e selvaggio. E ambienta le sue avventure nel Borneo, isola lontana ed ignota agli Italiani. Lo fa in un modo estremamente realistico: leggendo quelle pagine, sembra di vedere gli stessi scenari che oggi si ammirano, camminando nelle foreste ed ammirando la costa. Ma Salgàri lo fa senza esserci mai stato. Anzi, senza aver quasi mai lasciato i confini dell’Italia: l’unico vero viaggio che fa è andare da casa, in tram, fino alla Biblioteca Civica Centrale di Torino dove trova mappe ed racconti di viaggi esotici. Di necessità, virtù. Come diceva Salgàri «Scrivere è viaggiare, senza la seccatura dei bagagli».

Quelle descrizioni, unite alla sua fantasia, creano in tanti ragazzi la voglia di vivere avventure, il desiderio di esplorare il mondo, l’idea di combattere per la libertà. Immediato il successo. Gabriele d’Annunzio, Cesare Pavese, Noberto Bobbio diventano suoi appassionati lettori. «Ho letto quasi tutta la notte. Che scrittore questo Salgàri!» annota anche Gian Burrasca nel suo Giornalino. I suoi scritti, non solo Sandokan ma anche «Il Corsaro nero» e «Il figlio del Corsaro Rosso», vengono addirittura giudicati troppo audaci perché «scaldano gli animi».

Forse era vero: persino Ernesto Che Guevara divenne un suo appassionato lettore. Queste pagine di avventura, lo spirito di libertà e l’idea di anti-colonialismo possono aver cambiato la storia del ventesimo secolo.

E ancora oggi, guardando dal Gayana Eco Resort la luna che si specchia sulla rigogliosa barriera corallina dell’isola di Gaya, al largo delle coste del Borneo, riecheggiano le parole di Salgàri:«Quella notte, il mare che si stende lungo le coste del Borneo era d’argento. La luna che saliva in cielo col suo corteo di stelle, attraverso una purissima atmosfera, versava torrenti di luce azzurrina d’una dolcezza infinita». Qui Salgari non ci sarà mai stato, ma ha saputo descrivere la bellezza creata dalla natura, come fosse nata dalla poesia dalla sua penna.

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