Ferreira Pinto scrive un libro:
«Andare a scuola è importante»

Adriano Ferreira Pinto ha scritto un libro. Lui che non è andato a scuola - aveva sei anni quando la mamma l'ha mandato a lavorare in campagna - ha scritto un libro per spiegare quanto conta andare a scuola. E quanto bisogna combattere per realizzare i propri sogni.

Adriano Ferreira Pinto ha scritto un libro. Lui che non è andato a scuola - aveva sei anni quando la mamma l'ha mandato a lavorare in campagna perché servivano soldi, in casa non c'era da mangiare - ha scritto un libro per spiegare quanto conta andare a scuola. E quanto bisogna combattere per realizzare i propri sogni.

«Volevo solo giocare a calcio» racconta la storia della famiglia Ferreira Pinto, dalla nascita di Adriano (1979) al suo arrivo in Italia, al Lanciano (2002). Gli otto anni successivi (Perugia, Cesena, Atalanta) sono concentrati in poche pagine, perché sono storia nota.

Prima c'è un racconto incredibile, che nessuno crederebbe vero se non fosse la vita di un uomo nato poverissimo in Brasile e diventato un calciatore professionista in Italia. Eccone una piccola parte.

Adriano, perché ha deciso di raccontare la sua vita?
«Su pressione del procuratore. Ho sentito il dovere di dire ai bambini che la vita può anche essere dura, molto dura, ma che puoi comunque affrontare qualsiasi problema e vincere».

La sua famiglia era poverissima.
«Papà José Carlos era un contadino che la domenica mattina giocava a calcio, mamma Julia in tre anni ha messo al mondo mia sorella Miriam, io che sto nel mezzo e mio fratello Edievaldo. Papà era un contadino, lavorava a mezzadria coltivando verdura. Pomodori, zucchine, quello che pensava potesse rendere meglio».

Rendevano poco.
«Abbiamo girato 14 campagne diverse prima di fermarci a Porto Ferreira, in quel terreno allora in periferia dove oggi sorgono le nostre quattro case. Mamma però vive in centro, ha sempre sognato il centro. Lei non lavora più, ha solo 51 anni ma non voglio che faccia altra fatica, ci penso io».

Gli altri invece lavorano?
«Sì, tutti dobbiamo lavorare per avere una dignità nella vita. Miriam che fa la commessa in un negozio d'abbigliamento, Edievaldo è operaio in una fabbrica di mobili».

Non li porta in Italia?
«Impossibile. Nessun brasiliano lascia il Brasile senza un motivo. Io invece resterò qui, a fine carriera spero di fare l'aiutante di qualche preparatore atletico... Non c'è niente da ridere, non ho mai pensato di diventare Mourinho».

Suo figlio leggerà il libro della sua vita?
«Certo che sì. Spero lo aiuti a crescere. Perché se hai tanto dai tuoi genitori impari i valori della vita. E io cercherò di educarlo come hanno educato me».

Leggi tutto su L'Eco di Bergamo del 20 aprile

© RIPRODUZIONE RISERVATA