Il collega Sanfilippo a New York:
esperienza indimenticabile, ma...

Il nostro collega Marco Sanfilippo ha partecipato alla maratona di New York. Con problemi di salute e imbottito di antibiotici l'ha camminata fino alla fine. E qui ce la racconta con grande entusiasmo. Leggete la sua storia.

Beffato da Naohiro Tsujimoto. Avevo superato, pur camminando, un vecchietto, un omino esile come un filo d'erba, sotto la gigantesca struttura di ferro del ponte di Queensboro al 25° km. Lui, con la bandiera giapponese sul petto, correva in modo lentissimo, quasi impercettibile, ma continuo. Sembrava sostenuto soltanto da un soffio di vita. La sera ho controllato i risultati sul sito della maratona di New York, avrei scommesso sulla sua impresa perché - al di là dell'apparente debolezza - era lampante la sua ferrea forza d'animo, ma non avrei mai immaginato che il settantenne sarebbe arrivato prima di me. Non l'avevo più visto. Probabilmente mi ha superato quando mi sono fermato al 38° km per soccorrere Giovanni, 63 anni, di Civitavecchia, valente maratoneta sul viale del tramonto. L'avevo conosciuto sulla First Avenue, a Manhattan, mi aveva raccontato dei suoi guai fisici, dell'operazione a un menisco e alla cartilagine ormai inesistente del ginocchio sinistro, e del suo sogno: cingersi al collo la medaglia di chi finisce la maratona. Ecco perché, quando si è accasciato al suolo per una congestione e un abbassamento della pressione, si è rifiutato di salire sull'ambulanza e, nonostante lo «you are crazy» («Tu sei matto») dello staff medico, si è rialzato: siamo arrivati insieme al traguardo quasi a braccetto.

Con uno sprazzo di dignità avevo deciso di non correre nemmeno i chilometri conclusivi, non era il caso di fingere nella passerella finale quel che non era stato. Mossa felice perché così non ho abbandonato Giovanni e ho potuto aiutarlo, lui non parla nemmeno l'inglese. Il mio tempo? Ehm..., 6h41'52", numero 45.814 (29.376 tra gli uomini) all'arrivo, l'ultimo bergamasco, mi comunicano dalla redazione. È una notizia... Un disastro, peraltro abbastanza annunciato, nonostante le mie illusioni. Se non ci si allena e non si è in condizioni ideali di salute, è quasi inutile tentare.

Partecipare alla maratona di New York era un obiettivo da anni e Terramia, l'organizzazione italiana specializzata in viaggi per i runners, ha esaudito il mio desiderio con l'agognato pettorale. Due mesi d'allenamento con l'intento di correre i 42,195 km in 4h-4h30" e di stracciare il mio unico precedente di 5h29' e rotti (a San Diego nel 2006 con zero allenamento). Purtroppo un mese fa ho accusato un'infiammazione polmonare, non mi sono più allenato e mi sono presentato a New York imbottito di antibiotici. Quando, dopo circa 17 km corsi al ritmo programmato, ho avvertito una fitta al polmone sinistro, le gambe sono diventate improvvisamente pesanti e i dati del cardiofrequenzimetro sono balzati su livelli abbastanza preoccupanti, mi sono arreso all'evidenza che ormai ero out. Se non fosse stato per l'articolo, mi sarei ritirato perché la delusione era cocente ed era inutile rischiare l'ennesima infiammazione. Così ho pensato di camminare per raccontare cos'è la maratona di NewYork, scattare fotografie e liberarmi dell'incubo del tempo che scorre. Sì, è inutile negarlo, il responso del cronometro era fondamentale, al di là di vivere la fantastica atmosfera del centro del mondo. Il «dio tempo» contagia sia i professionisti, sia i «tapascioni». Basta controllare nevroticamente il cronometro, basta ipotizzare tabelle, basta calcoli. Ho tentato di ribellarmi alla crisi, mi sono scosso quando ho visto il runner con il palloncino che segnava la media da tenere per concludere la maratona entro le 5 ore e avere così l'onore di veder pubblicato anche il mio nome nell'inserto «New York Times», ma inutilmente.

E quando ho rinunciato a rincorrere una spagnola con un ammiccante tatuaggio, mi sono rassegnato a camminare. E dire che sulla schiena avevo stampato un «Run to beer». Non diventerò astemio? Dopo la crisi la mia posizione è cambiata: camminando non mi sentivo più nella maratona: ero un osservatore dall'interno della corsa e mi sono gustato i momenti più belli, anche se mi sentivo un po' in colpa per non poter aderire al «Go Italia, go Zampa (il mio soprannome sul pettorale, ndr)» urlato dai newyorkesi. Il loro affetto cresce e si moltiplica se sei in crisi.

La partenza da State Island era stata da brividi e qualcosa in più con il colpo di cannone sentito da lontano, le note di «New York, New York» di Liza Minnelli e il famoso ponte di Verrazzano, scenario dei primi km della maratona. Il primo impatto con la gente a Brooklyn, che sta diventando la nuova Manhattan. Una straordinaria manifestazione d'entusiasmo: per i newyorkesi la maratona è un avvenimento imperdibile. Urla e cartelli d'incitamento lungo il percorso, complessi musicali che caricavano i maratoneti, bambini e poliziotti che ti davano «il cinque» e offrivano caramelle e pezzi di torta. La gente di New York ha una predilezione per i maratoneti italiani e per il loro premier... Letto su un cartello: «Go Italia. Ma dovete far correre Berlusconi, non vi siete ancora stancati?». La crisi arriva tra Brooklyn e il Queens. La scalinata di una chiesa battista si era trasformata in un palcoscenico per infervorati cori gospel, cartelli con scritte come «Go sexy runners», «Chuck Norris never run here» («Chuck Norris non ha mai corso qui») e, traduciamo già, «Meno dell'1% della popolazione mondiale ha realizzato un'impresa come la vostra» rincuoravano e di strappavano un sorriso agli stanchi. Dopo il ponte di Queensboro c'è una curva e un'ala di folla da stadio ha abbracciato i maratoneti sulla First Avenue, un'arteria di Manhattan, dritta circa 7 km, che ai runners sembra infinita. Ma io camminavo... Qui ho conosciuto Giovanni, letto numerosi sms di chi sapeva già delle mie disavventure (il più maligno: «Ma è vero che ti fermi a dormire al 20° km?») e ammirato i partecipanti più creativi: un simil casalinga con enormi bigodini, un centurione romano, un messicano - con indosso costume da bagno e passamontagna - che ha scatenato ripetute ovazioni del pubblico, una signora attempata, pure lei in costume con il reggiseno dei colori della bandiera del Regno Unito, che ha suscitato minori consensi e due Blues Brothers con completo nero, cravatta e cappello. Eccoci nel Bronx, «ruvido» ma vero. Meno folla ma con la musica e il ballo nell'anima. Tre neri in poltrona ai bordi della strada mostravano un cartello: «Proud of U» («Orgoglioso di te»). Sentimento ricambiato al 100%. Rientro a Manhattan. Una vecchia arzilla, con banda elastica sulla gamba sinistra, mi ha superato a ritmo forsennato di marcia, un'altra donna mi ha invitato a spostarmi perché doveva passare: ridicolizzato. Finalmente, infreddolito, sono entrato a Central Park con Giovanni quando calavano le prime ombre della sera. Incredibile: mentre i volontari - una marea di gentilezza - smontavano le transenne, nel parco c'era ancora molta gente che rincuorava gli ultimi con un commovente «Great job» e stringeva loro la mano. I fotografi hanno immortalato l'arrivo, io ho indicato un cuoricino sul pettorale e non ho nemmeno fermato il cronometro, non ne valeva la pena. Quasi mi stavo scordando di ritirare la medaglia che non sentivo mia.

Una giornata disastrosa ma indimenticabile. Vi domanderete il perché dell'articolo, è uno spazio che avrebbe dovuto gratificare Maria Lo Grasso, una bergamasca di 33 anni, che ha corso in 3h00'25", un tempo da fantascienza. Spero soltanto di avervi regalato briciole da ricordare della maratona più bella del mondo. Anche per me. Sarebbe una bella consolazione, dopo quel crono maledetto...
Marco Sanfilippo

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