Domenghini e la Coppa Italia
«Da lì atalantino per sempre»

«Nella vita di tutti ci sono momenti che percepisci speciali. Quello per me lo è stato. A 21 anni vinci la Coppa Italia da bergamasco che gioca nell'Atalanta segnando tre gol in finale. E ne prendi coscienza solo quando avverti l'affetto della tua gente».

«Nella vita di tutti ci sono momenti che percepisci speciali. Quello per me lo è stato. A 21 anni vinci la Coppa Italia da bergamasco che gioca nell'Atalanta segnando tre gol in finale. E ne prendi coscienza solo quando avverti l'affetto della tua gente. Poi gli trovi un posto nel cuore e nulla lo cancella più. Ho vissuto mille altre gioie calcistiche, anche più importanti. Ma quando ti guardi dentro capisci che sarai comunque atalantino per sempre...».

Cinquant'anni dopo Angelo Domenghini fa sintesi così di quello straordinario pomeriggio vissuto a San Siro: Atalanta-Torino 3-1, Coppa Italia a Bergamo, lui - tripletta - direttamente nella storia. «Ma mentre succede non te ne rendi conto, anzi quando ci penso mi viene sempre in mente la mestizia che comunque ci accompagnò al rientro a Bergamo, causata dalle gravi condizioni di Papa Giovanni XXIII, poi scomparso il giorno dopo...».

Domenghini sta vivendo il suo semestre in Sardegna (l'inverno a Lallio, l'estate nella sua casa di Porto Cervo), e dato che stanno per raggiungerlo i figli con i nipotini ha scelto di defilarsi da qualsiasi cerimonia. «Mi ha appena chiamato Gigi (Pizzaballa, ndr), ma già sapeva che da qui non mi muovo. Le celebrazioni mi imbarazzano. Se poi penso che da allora sono passati cinquant'anni, mi spavento anche. Vuol dire che adesso ne ho 71...».

Quanti di calcio?
«Venti da calciatore, 14 da allenatore, 16 da osservatore. Siamo a 50. Ora da due anni non lavoro più per l'Inter. All'inizio l'ho presa male, adesso mi dedico ai nipotini e sto meglio di prima. E vedo il calcio con serenità».

Ma li ricorda, i suoi inizi?
«Impossibile dimenticarli. Io e gli amici del paese, sempre insieme, andiamo a giocare un torneo notturno all'oratorio di Verdello. Il giorno dopo l'eliminazione, al quarto turno, mi trovo sulla porta di casa don Antonio, e vi prego di chiamarlo solo così, che mi offre 20 mila lire per andare alle Verdellese. Per la prima volta mi ritrovo a giocare in un campo a 11, con l'erba. Un anno, poi l'Atalanta: 150 mila lire al mese, io ne prendevo 60 mila da apprendista alla Magrini. Mollo la fabbrica, ogni giorno vado "per lavoro" allo stadio, mi pare un sogno».

Un sogno?
«Beh, prima della fabbrica avevo fatto l'apprendista tipografo, tenete conto che sono il sesto di nove fratelli... Come potevo rinunciare all'Atalanta? E ogni giorno dopo l'allenamento con la De Martino lavoravo da solo con mister Kincses, l'ex atalantino che era diventato l'allenatore dei ragazzi. Mi ha migliorato il fisico con un lavoro specifico».

Come no, quel Domenghini era un'acciuga...
«Avevo l'altezza giusta, 178 centimetri, niente male. Ma 52 chili erano davvero pochi. Due anni prima, alla fine di un provino per l'Atalanta, papà Ciatto mi aveva detto: "Ah, tu ragazzo andresti benissimo, ma adesso torna a casa e mangia un po' più di bistecche... Ci vediamo tra un paio d'anni". Ce l'ho fatta...».

Sì, qualche chilo l'ha messo. E poi, che carriera.
«Mi sono irrobustito, con il lavoro e le botte. In allenamento i compagni mi menavano ogni giorno, in particolare Umberto Colombo quando andavo con la prima squadra. Lui, con l'ingegner Tentorio, credeva più di tutti nelle mie possibilità. Me lo diceva ogni giorno, e ogni giorno quando c'era la partitella mi faceva saltare per aria... Quante botte m'ha dato Colombo...».

Lei all'inizio giocava da attaccante.
«Anche. Mi è successo anche all'Inter, inizialmente. Prima punta, con Mazzola dietro. Ma io volevo di fare il centrocampista, tutti gli allenatori però mi spostavano sull'esterno: sei troppo leggero, vai in fascia che lì puoi correre... Ma giuravano di credere in me...».

Anche don Antonio credeva in lei.
«Lui sì, quando firmai mi promise un premio se la Verdellese m'avesse venduto, quando passai all'Atalanta mi diede 200 mila lire. Più di quanto presi dall'Atalanta quando andai all'Inter...».

Quanto prese?
«Niente. Ai tempi era così, tra i professionisti. Sembravo destinato al Torino, o al Milan. D'un tratto mi ritrovai all'Inter. Ed è cominciata l'altra storia».

Eppure lei si ricorda ancora di quel pomeriggio a San Siro.
«Tutto mi ricordo. Che non ha giocato Da Costa perché era infortunato, e mister Tabanelli, uno che capiva di calcio come pochi, lo sostituì con Veneri per marcare a uomo Peirò. E mi ricordo benissimo i tre gol. Il primo di testa...».

...decisivo per cambiare la partita. Dopo 4 minuti.
«Decisivo non direi, ma fondamentale per segnare il pomeriggio sì. Perché il Torino era favorito, ma noi da quel gol poi abbiamo tratto una forza incredibile».

L'immagine del 2-0 è la sua foto simbolo da atalantino.
«Il 2-0 ha fatto male al Torino, perché gli ha tolto speranze. E io mi sono scusato per anni con il mio amico Magistrelli, perché quel gol era suo, l'ho proprio rubato... Avrebbe segnato Luciano, invece mi sono intrufolato io...».

Magistrelli non ne parlava mai.
«Perché mi voleva bene. Poi il 3-0 ci ha fatto capire che non ci avrebbero più presi. Saltai anche il portiere, infilando la palla tra due difensori. Fortuna... Ma quel gol servì a vanificare il gol di Ferrini nel finale».

Ma a quel punto il Torino l'aveva già battuto lei.
«L'aveva battuto l'Atalanta, perché quella era una squadra vera, un gruppo. Non c'era una star, ma un amalgama di buoni giocatori tra loro diversi, complementari. E con un allenatore, Tabanelli, che sapeva di calcio. E lo dimostrava in ogni partita».

E poi, a fine partita?
«Tutti mi coccolavano, io non ho mai più segnato una tripletta e quanto fosse importante quell'exploit l'ho capito subito dopo: i bergamaschi sono straordinari, mi hanno sempre voluto bene».

Ma lei augurerebbe all'Atalanta un'altra soddisfazione come quella? Oppure è irripetibile?
«Beh, con la formula attuale la Coppa Italia favorisce le grandi, questo è chiaro. Ma mi piacerebbe davvero che l'Atalanta ripetesse quell'impresa».

Meglio la Coppa Italia o dieci anni di fila in serie A?
«Lo so che questo è il vostro cavallo di battaglia. Ma secondo me se anziché restare dieci anni in serie A ci si ferma a nove e si gioca un campionato di B in cambio della vittoria della Coppa Italia, perché no. Perché comunque nella storia dell'Atalanta c'è ogni tanto un anno di B, l'importante è tornare subito tra le grandi. Di Coppa Italia invece ne è arrivata una in un secolo. Sarebbe straordinario ripetersi».

Cosa farà domenica, a 50 anni da quella tripletta?
«Vivrò una giornata piena con Federico e Luca, i miei nipotini. Hanno tre anni in due. E con i miei figli. Sarà il modo più bello per vivere il mio tempo. Quel che è ormai nella storia, invece, viviamolo come storia. E forza Atalanta...».

Pietro Serina

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