Celadina, due passi e un gelato
negli anni ’60 del quartiere «nuovo»

Questa fotografia porta le lancette del nostro orologio indietro di mezzo secolo, quando il quartiere Celadina era nato da pochi anni e non era ancora popoloso come oggi.

Nel prezioso archivio digitale di Storylababbiamo trovato, fra le altre, questa fotografia scattata negli anni ’60 in via Celadina. È la via storica del quartiere che porta lo stesso nome, la strada «d’ingresso» al rione che iniziò a svilupparsi negli anni ’50, una decina d’anni prima dello scatto: sulla sinistra si vedono le prime case popolari costruite e sulla destra un bar con ombrelloni, tavolini all’aperto e la tenda con la scritta «gelati» in bella evidenza. Il lato destro della strada ancora oggi mantiene la sua fisionomia commerciale, tra negozi, locali e l’edicola che si vede nella foto attuale scattata dal nostro Beppe Bedolis.

Nel 1954 abitavano alla Celadina mille persone, mentre oggi è il secondo quartiere più popoloso della città, dove vivono oltre 9 mila persone (ne parliamo anche in questo articolo). I condomini erano venuti su in mezzo ai campi e per alcuni anni non ebbero servizi fondamentali come l’illuminazione pubblica, il servizio telefonico, la raccolta della spazzatura e non c’era nemmeno la chiesa. Nel corso degli anni arrivarono non solo i servizi e la chiesa (di fatto la prima chiesa moderna in Italia), ma anche strutture come la casa di riposo, il carcere e diversi altri condomini. Nello scatto di Storylab si vedono cavi elettrici e lampioni, segno che negli anni ’60 lo sviluppo dei servizi aveva raggiunto un livello superiore a quello del decennio precedente. Di auto e traffico, anche qui come in altre zone della città di cui vi abbiamo proposto vecchi scatti, quasi nulla: si poteva pedalare e attraversare la strada (come la persona ripresa nella foto) senza troppe preoccupazioni.

Via Celadina è anche la via del «Portone del Diavolo», enigmatico arco di pietra squadrate che si trova all’inizio della strada. Fino a sessant’anni fa stava a guardia di un grande terreno agricolo, mentre oggi è completamente circondato dagli edifici. A cosa serviva? Lo spiegava la contessa Passi, abitante nella villa dei Tasso, intervistata dall’Eco nel 1954: «Eravamo nel Cinquecento e Giovanni Galeazzo Tasso tornava dal suo viaggio di nozze, quando arrivò trovò quell’arco costruito in poco tempo, in suo onore». L’arco e la strada campestre che arrivava al palazzo vengono spiegati da una epigrafe: «Sandro Fator a fato questa strada e fato costrur questa porta». Ma l’arco-portone venne costruito così bene e rapidamente che la gente mormorò che Sandro si era avvalso dell’aiuto del diavolo.

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