Estorsione e rapina aggravata
Cinque anni al boss «Pino» Romano

Un nome noto quello di Pino Romano, considerato uomo dei clan calabresi a Romano, già coinvolto in maxi-inchieste sull’ndrangheta in Bergamasca.

Venerdì mattina i carabinieri della Compagnia di Treviglio hanno dato esecuzione ad un ordine di carcerazione per una condanna definitiva per estorsione e rapina aggravata in concorso emesso dall’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura della Repubblica di Brescia nei confronti del 60enne Giuseppe Romano, detto «Pino», di origini calabresi, ma da tempo oramai domiciliato a Romano di Lombardia.

Dopo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per Cassazione, è stato quindi emesso il provvedimento restrittivo a carico dell’uomo, con alle spalle già altri precedenti penali. La condanna definitiva è di 5 anni e mezzo di reclusione, ai quali va comunque decurtato il periodo di custodia cautelare in carcere già espiato dall’uomo. In sostanza il residuo pena è di circa 5 anni, oltre alle pene accessorie applicate dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la stessa durata della pena, per i reati di estorsione e rapina aggravata in concorso per fatti risalenti al 2012 e compiuti dal 60enne in provincia di Brescia.

Il tutto nacque all’epoca dall’indagine «Squalo» del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale CC di Brescia. Romano venne prima arrestato nel 2005 e nel 2009 condannato in primo grado a Bergamo a 26 anni per associazione di stampo mafioso nel processo ’Nduja per estorsioni, armi, droga, usura, caporalato che gettava ombre di infiltrazioni ’ndranghetiste fra la Bergamasca e il Bresciano. Ma, dopo una serie di rimpalli, la condanna (divenuta definitiva nel 2014) nei suoi confronti fu ridimensionata a 7 anni, 8 mesi e 20 giorni. Il motivo? Caduto il vincolo mafioso, l’associazione era stata riqualificata in semplice. Per questa vicenda era rimasto in cella fino al settembre 2011. Nel novembre 2012 era stato nuovamente arrestato nell’ambito dell’inchiesta «Squalo» riguardante una serie di estorsioni. Gli era contestato il metodo mafioso, ma nell’ottobre 2014 i giudici di primo grado (la sentenza pende in appello), pur condannandolo a 5 anni e mezzo, non avevano riconosciuto l’aggravante.

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