Niente parole, comunica con lo sguardo
E le sue bambole un ponte con il mondo

Se la ricorda benissimo la neve sul mare di Calabria, evento straordinario del 1° marzo 1996. Quel giorno all’ospedale di Locri è nata Mariagrazia, sua secondogenita, 22 mesi dopo suo figlio Vincenzo: una data di festeggiamenti e sorrisi che Rosita Ierace associa però a una consapevolezza che stava crescendo nel suo animo: «Il mio bambino aveva qualcosa che non andava, Vincenzo aveva bisogno del mio aiuto».

Rosita è un’insegnante elementare 49enne, donna tenace, mamma guerriera, una bergamasca acquisita, arrivata da Roccella Ionica con il marito Pino Lo Presti 21 anni fa. A quei tempi ancora nessuno parlava di autismo, ma lei associa «l’inizio di tutto» a quel giorno in cui la neve è caduta sul suo amato mare, in quel silenzio irreale e rivelatore di una storia scritta con dolore, ma fatta anche di grandi vittorie.

Vincenzo compirà 24 anni il prossimo 10 maggio, ha gli occhi scuri e profondi, il sorriso «che c’è poche volte ma quando arriva ti avvolge e ti scalda»; le mani grandi con cui comunica al mondo insieme a uno sguardo pieno di domande. Il 1° aprile è la Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo, istituita nel 2007 dall’Onu per accrescere la sensibilità collettiva, e Rosita racconta così la sua storia sull’autismo, diagnosi feroce in una delle sue forme più gravi: «Nel dolore, nella fatica quotidiana l’autismo è diventata la mia buona notizia, perché con Vincenzo si è aperto un mondo di fiducia e di amore, di collaborazione – spiega –. La vita della nostra famiglia, da 24 anni, è una sorprendente scoperta di contatti che con fiducia si sono creati attorno a nostro figlio, esempio concreto per molte famiglie contro il silenzio che spesso avvolge chi vive diagnosi così dure e spesso pesanti da sostenere».

Date e immagini sono impresse nella memoria di questa mamma. «Giorni di pianti, ma anche di abbracci e sorrisi: Vincenzo non ha mai parlato, ma con quel suo sguardo profondo e indagatore sul mondo ci dice tanto» spiega e inizia a raccontare: «Tornata a casa dall’ospedale, dopo la nascita di Mariagrazia, è stato come se tutto mi fosse finalmente chiaro. Lui era seduto nel seggiolone, a 22 mesi, e si dondolava silenzioso senza neppure guardarmi. Erano già diversi mesi che andavo dai medici chiedendo aiuto: Vincenzo non aveva l’istinto della suzione, piangeva continuamente, comunicava con urla strazianti e non si relazionava. I dottori mi dicevano che ero pazza, che esageravo». La parola «autismo» uscirà dalle bocche dei medici solo qualche anno dopo: «Nessuno sembrava essere in grado di darmi delle risposte. Non c’era Internet, i medici in Calabria brancolavano nel buio o e io andavo in biblioteca a cercare libri che potessero aiutarmi. Mi sentivo sola e stanca e Vincenzo continuava a piangere, a urlare: i vicini di casa ogni tanto mi supplicavano di farlo smettere».

Poi c’è un’altra data: «Il 16 novembre 1996 prendo Vincenzo e lo porto al Gaslini di Genova – continua Rosita –. Qui abitavano delle mie zie, e il bambino viene visitato per due giorni». La diagnosi lacera una ferita che già si era aperta: «Disturbi della crescita e ritardo cognitivo. Torno a Roccella Ionica con tanti documenti e un groppo alla gola». Perché in Calabria, a Rosita, nessuno la ascolta: «Mi dicono che non c’era personale per assistere Vincenzo, che servivano altri accertamenti». Vincenzo piange e Rosita piange con lui, mentre la famiglia fa scudo: «La pazienza di mio marito Pino, sempre con Vincenzo che si faceva ogni giorno più aggressivo. E poi mia nonna e le sue carezze; mia madre, un carro armato instancabile, la pazienza della piccola Mariagrazia».

Poi c’è una telefonata che cambia le prospettive: «Siamo nel gennaio 1997 e mi chiama il Provveditorato di Bergamo per propormi una supplenza in città – racconta –. Aspettavo un’offerta da anni, dopo aver vinto il concorso, ma quel giorno non potevo fare altro che domandarmi: come posso fare? Ho solo risposto di cancellarmi dalle liste perché mai avrei potuto lasciare Vincenzo». Ma dall’altro capo del telefono, a oltre mille chilometri di distanza, la voce rotta dal pianto di Rosita muove la sensibilità della dipendente del Provveditorato orobico e quella comunicazione finisce per cambiare la vita della famiglia: «Mi passò l’allora funzionaria Maria Carla Marchesi che volle capire cosa mi stava capitando: lei aveva già capito tutto e mi disse solo di avere qualche giorno di pazienza». E così è stato: Maria Carla Marchesi non abbandona più Vincenzo, tanto che il 27 agosto 1997 la famiglia Lo Presti si trasferisce in via Broseta, a Bergamo: «Lo scorso anno abbiamo festeggiato i nostri 20 anni bergamaschi, ricchi di affetto e di persone che hanno costellato la nostra vita e la crescita di Vincenzo».

Dalla maestra storica Mirella, alla scuola materna «Coghetti» alle insegnanti della scuola primaria Calvi con Rosaria Crinò, fino a tutti i volontari ed educatori che si sono susseguiti alla Cooperativa Se.re.na, allo Spazio Autismo di Bergamo e al Centro Socio-educativo per l’autismo di Valtesse, in coprogettazione con il Comune di Bergamo. Ci sono Marcella Giazzi, Jhonny Roncalli, Lucio Deretti e Paola Russo, che dalle Medie ancora oggi segue Vincenzo: «Sono questi alcuni dei suoi “angeli” – sorride la mamma –. La vita è proprio bellissima nella sua intensità» commenta ancora. Vita intensa e capace di far rialzare chi è stanco e non riesce a muovere un passo: «Mio marito ha trovato lavoro dopo aver lasciato un posto sicuro in Calabria, io ho iniziato a fare la maestra, sogno di ragazza: prima a Zingonia, poi alla Calvi di Bergamo e ora alla scuola Papa Giovanni XXIII di Monterosso dove seguo le classi prime con entusiasmo».

Rosita fotografa ogni tappa della vita di suo figlio, una rete di sostegno che, quando si parla di autismo, si deve fare sempre più fitta. Vincenzo non parla, è violento e ha bisogno di molti medicinali; ha bisogno di assistenza per ogni piccola attività domestica: per lavarsi, per mangiare, per deambulare. Ha bisogno di stimoli che gli vengono offerti attraverso la musicoterapia, le passeggiate quotidiane sul territorio, i laboratori sensoriali e la fisioterapia. Tutti servizi offerti dal Centro Socio-educativo in cui è stato inserito dopo le Medie: «È stato il più giovane ad arrivare, è stato il sostegno di cui avevamo bisogno, il sollievo per la nostra famiglia così affaticata nella quotidianità: questo ci ha permesso di vedere un domani nei suoi occhi».

Rosita abbraccia Vincenzo con dolcezza, lo accudisce e coinvolge in un mondo che ha creato per comunicare con lui, «anche per ritagliare nella cruda realtà una parentesi di sollievo e fantasia». Da circa un anno questa mamma vulcanica si è inventata delle bambole di stoffa, che costruisce nei pomeriggi con Vincenzo: «Lui ama toccare le stoffe, tirare e annodare le gambe e le braccia di queste bambine dai capelli di cotone e dagli abiti colorati».

Bambole a cui non viene fatta la bocca perché parlano con gli occhi, proprio come Vincenzo, e raccontano un’infanzia mai goduta: «Mio figlio si è fatto i denti morsicando le sue scarpe da ginnastica, ha distrutto i giocattoli di sua sorella. Con queste bambole si fa più gentile, quasi percepisse che sono il nostro legame». Ora le bambole, ognuna pezzo unico e con un nome, saranno donate al Centro Socio-educativo di Bergamo, per una raccolta fondi e un grazie concreto al lavoro dello spazio: «Perché siano gioia e aiuto per altri bambini e un ricordo di Vincenzo e della sua storia qui a Bergamo».

Storia che continua, nelle fatiche quotidiane e nelle piccole e grandi conquiste: «Come i weekend di autonomia ad Almè con lo Spazio Autismo, mentre la scorsa estate il ragazzo ha trascorso i primi dieci giorni «senza di noi – racconta Rosita -: con la Cooperativa Se.re.na che ha gestito l’organizzazione, ha vissuto dieci giorni a Morengo alla Cooperativa Itaca, in rete con il Centro Socio educativo gestito da Marcella Giazzi». Rosita e Pino sono tornati a Roccella per la prima volta da soli: «Mancavano gli strilli di Vincenzo nella grande casa sul mare e il respiro di Jason, il labrador addestrato che gli sta sempre accanto».

Rosita lo dice con chiarezza: «Ogni giorno è diverso e faticoso, ma non mi sento sola, anche grazie a Pino: è lui il vero eroe di Vincenzo». Poi aggiunge: «Il futuro? Non ci penso, non posso permettermelo. So che c’è una rete e questa consapevolezza mi fa andare avanti, mi fa credere al “dopo di noi”». Lo ha spiegato bene la sorella Mariagrazia, mentre frequenta la Facoltà di Infermeria a Brescia: «Da piccola sognavo di diventare un dottore famoso e di trovare una cura per Vincenzo: per sentirlo parlare, perché così mi avrebbe chiamata per nome e non avrebbe più mangiato i piedi delle mie bambole. Lui è da sempre il mio compagno di avventure e la sua vita, la nostra vita, mi ha portato a concentrare i miei studi sulla salute dell’uomo. Per realizzare quel sogno di bambina e per continuare a credere in noi due insieme».

Perché la normalità non esiste: «Penso allo sguardo della gente per strada. Finché questi ragazzi sono piccoli si guardano con tenerezza, da grandi si osservano con pietà e paura». Ma c’è sempre una buona notizia per Rosita: «È Vincenzo, ed è anche Bergamo: qui ho scoperto che bisogna saper chiedere aiuto e c’è sempre qualcuno a cui offrire il proprio». Lo dice anche ai suoi alunni: «Il silenzio è un grido inutile».

Alla fine lo sguardo va verso Vincenzo: «Quando siamo soli, glielo domando sempre: cosa vuoi chiedermi Vincenzo? Cosa vorresti raccontarmi? Ogni tanto me lo sogno che mi dice “mamma”. Ci penso sempre a quella parola pronunciata dalla sua voce». Due sillabe d’amore. Poi Rosita prende una bambola e torna a cucire. Vicino a lei Vincenzo e Jason che scodinzola piano nel silenzio della casa.

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