Pensioni e sanità
Il rischio contabile

Il mancato adeguamento delle pensioni all’inflazione, aggravato dalla richiesta di restituzione degli incrementi versati nel primo trimestre, pochi euro individuali ma 2,3 miliardi per lo Stato, secondo il premier Conte è cosa che dovrebbe turbare al massimo l’Avaro di Moliere, eppure ha suscitato non poche (comprensibili) recriminazioni tra 5,6 milioni di pensionati. Segno che il tema pensionistico è un nervo scoperto che è meglio non sfiorare, perché incide su persone che hanno bisogno di stabilità, e non possono ormai procurarsi altre fonti di reddito.

Qualunque forma di intervento retroattivo anche minimo è per questo inaccettabile. L’opinione pubblica riconosce oggi più di ieri che sia equa una pensione basata su quanto è stato versato, ma è ingiusto applicare questo criterio decenni dopo un diritto ormai consolidato. Può valere per il futuro, pensando ai giovani, ma sarebbe vissuta come un’ingiustizia anche dai pensionati baby. Solo nel 1992 (primo choc finanziario) Amato riuscì a rallentare il meccanismo in atto, e dopo di lui Maroni e soprattutto Dini, trovarono il coraggio di chiudere gradualmente il metodo retributivo per il futuro.

La riforma Fornero (secondo choc finanziario) ha cercato un criterio oggettivo, la speranza di vita, allungando rigidamente l’andata in pensione, ma sempre per il futuro, sia pur a scadenze più ravvicinate. Da quel 2012 è però partita la marcia indietro, con tre governi Pd e con l’attuale, che ha solo aperto un piccolo canale alternativo e facoltativo (quota 100), lasciando in piedi il sistema Fornero, che aveva in verità la gravissima lacuna degli esodati, per i quali sono state introdotte ben 8 sanatorie, più altri provvedimenti ad hoc come l’opzione donna, l’Ape social e quella normale (confermate dal governo attuale). Sette anni di marcia indietro si sono ripresi 17 dei 150 miliardi di risparmi pluridecennali della Fornero originaria, e hanno consentito a 530 mila lavoratori di evitarne i rigori. A questi, vanno ora aggiunti i 300 mila di quota 100 con un costo di 8 miliardi quest’anno, 10 aggiuntivi per ciascuno dei due seguenti fino al 2021 quando, secondo l’esperto Alberto Brambilla, ci saremo mangiati il 60% dell’effetto finanziario Fornero, misurato fino al 2040. Il problema del passato, che non è giusto toccare, e del futuro che dovrà inevitabilmente fare i conti con questi numeri, resta dunque in tutta la sua gravità. Se poi guardiamo i valori assoluti vediamo che uno Stato che ha un debito al 132% del Pil e una spesa pubblica di circa 800 miliardi, 10 anni fa ne spendeva 60 per assistenza sociale e quest’anno arriverà a 117, più la spesa ad hoc dei Comuni e lo 0,8% del Pil per il sostegno alla casa, con un totale di circa 130 miliardi. Cifra da paragonare ai 160 miliardi delle normali pensioni, cioè quelle sostenute in tutto (poche) o in parte, da contributi.

Questo significa che circa la metà dei percettori di un vitalizio Inps non ha versato il corrispondente contributo. Quando si parla di pensioni «da fame» significa purtroppo che c’è dietro una vita «da fame» con contributi zero. È su tutto questo che si inserisce il discorso delle pensioni e dei redditi di cittadinanza, che hanno dunque una ragion d’essere morale, ma contribuiscono a rendere sempre più traballante il sistema del finanziamento di questo aiuto sociale, fino al rischio di un nuovo choc, forse stavolta irreparabile e da far pagare ai più deboli. In percentuale sul Pil, le prestazioni sociali arrivano quest’anno al 20,5, lo 0,6% in più rispetto al 2018 e a salire fino al 2021, quando il valore assoluto sarà di 397 miliardi. Nello stesso biennio, però, calerà la spesa sanitaria, dello 0,9% rispetto al 2018. Numeri che segnalano un problema. Non ci sono risorse per coprire tutto (tagliare la sanità per il rdc?), e, con un terzo degli italiani che guadagna quanto il reddito di cittadinanza, il rischio di un cortocircuito sociale è assai pericoloso per la democrazia.

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